2020, la diplomazia e le guerre per procura
Il nuovo anno si è aperto sferzato dai venti di guerra che spirano tra Usa e Iran, in Libia e dalle rivolte in Iraq e Iran. L’Italia punta sul dialogo e l’inclusione. Una scelta coraggiosa.
La diplomazia non ha armate da schierare, ma una convinzione profonda, anche se di difficile realizzazione: non esistono scorciatoie militari per garantire ordine, stabilità, crescita, benessere sociale, rispetto dei diritti umani in un Mediterraneo in fiamme. L’Italia ci prova. Lo ha fatto alla Conferenza per la Libia di Berlino. Lo ha fatto con le missioni diplomatiche del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Lo ha fatto, anche se questo aspetto essenziale sfugge come sempre ai radar dell’informazione, con i tanti progetti di cooperazione, bilaterali e multilaterali, realizzati o in via di realizzazione dal “sistema Italia” – Aics, Ong, privati…- con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Pace non è assenza di guerra. Pace è sviluppo, creare le condizioni strutturali per andare oltre l’emergenza. Pace è inclusione. Pace è puntare su un ruolo sempre più attivo e protagonista degli organismi sovranazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Pace è tutto questo o, semplicemente, non è. Il Medio Oriente è in fiamme: dalla Libia allo Yemen, dall’Iraq al Libano. Ma dietro quelle fiamme non ci sono solo ambizioni di potenza da parte di attori regionali o globali, e neanche solo resistenze di vecchie nomenclature abbarbicate al potere. Quelle divampate sono anche fiamme di speranza, una speranza di cambiamento incarnata dai giovani protagonisti delle manifestazioni di piazza che hanno segnato gli ultimi mesi in Iraq e in Libano. Il 2020 nasce sotto il segno di guerra, ma anche di un cambiamento possibile. Una sola cosa è certa: l’impossibilità di perpetrare lo status quo. In Iraq, ad esempio, dove si intensificano le proteste anti-governative a Baghdad e in diverse città meridionali. Ci sono state manifestazioni nei governatorati di al-Muthanna, Wasit, Diwaniyah, Bassora e Dhi Qar. I manifestanti hanno bloccato le strade in diverse città tra le quali Baghdad, intensificando la loro battaglia per chiedere un cambiamento a livello politico, un nuovo primo ministro e anche la riforma elettorale. Scaduto il termine concesso al governo per rispondere alle loro domande. Tra le richieste rimaste inevase, la formazione di un governo ad interim, elezioni anticipate e un’indagine che facesse luce sull’uccisione di manifestanti.
Secondo l’agenzia di stampa irachena, diverse persone sono state arrestate perché avevano tentato di bloccare la strada di Mohamed al-Qasim che collega la parte meridionale e settentrionale di Baghdad. I manifestanti hanno anche bloccato e installato tende sulla strada principale tra Baghdad e Nassiriya, un’altra delle grandi città del Paese. Chiusa anche l’autostrada che collega al-Diwaniyah ad altre province e, secondo al-Arabiya, anche le strade principali nella città di Kut del governatorato di al-Wasit, che confina con l’Iran. A Najaf, i manifestanti hanno bruciato immagini del generale iraniano Qassem Soleimani e hanno strappato poster di Abu Mahdi al-Muhandis, l’ex leader delle forze di mobilitazione popolari irachen, Hashd al-Shaabi, il cartello delle milizie irachene per lo più sciite e controllate dall’Iran. Il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Iraq, Jeanine Hennis-Plasschaert, ha definito “inaccettabile” l’uso della forza contro i manifestanti pacifici e ha rinnovato la richiesta di riforme, esprimendo preoccupazione sulla violazione dei diritti umani. “Importante – ha aggiunto in una nota – trovare il modo di rispondere alle richieste del popolo iracheno”. “Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di iracheni di ogni estrazione sociale sono scesi in piazza per esprimere le loro speranze di tempi migliori, liberi da corruzione, interessi di parte e interferenze straniere. L’uccisione e le lesioni di manifestanti pacifici, combinati con lunghi anni di promesse non consegnate, hanno provocato una grave crisi di fiducia”, ha detto Hennis-Plasschaert.
Stando a quanto riporta il canale di informazione curdo Rudaw, infatti, la composizione della piazza è mista: sono diverse le categorie di dimostranti, persone di varie estrazioni sociali ed economiche, tra cui personale del ministero della Difesa, venuti a chiedere diritti salariali, studenti universitari, esponenti delle Unità di mobilitazione popolari. In larga misura, però, si tratta di giovani che combattono l’intero establishment iracheno dichiarandosi indipendenti da qualsiasi partito politico o fazione religiosa.
“Nei miei occhi ci sono ancora gli slogan usati dal movimento dei manifestanti: ‘We Want an homeland’, ‘Another Iraq is possible’ e ancora ‘Vogliamo la caduta del regime’. E poi ci sono numerosi altri slogan che rivendicano la cacciata di entrambe le potenze: ‘Né Usa, né Iran’.Sono stufi di entrambi perché dal 2003 hanno pagato sulla loro pelle il prezzo di que ste ingerenze. Tra le rivendicazioni della piazza c’è anche questa. Scorrendo i vari meme che sono usciti sui social arabi, ne ho visto uno in cui l’Iraq è rappresentato in mezzo tra le due bombe di Iran e Usa. ‘Non siamo il campo di battaglia di nessuno’, rivendicano i giovani”, racconta in una intervista a Magzine Sara Manisera, giornalista freelance reporter in Iraq, Siria e Libano. Sara è stata in Iraq, conosce gli sviluppi, ha vissuto al lato dei giovani iracheni in protesta e ha realizzato un bellissimo reportage per la televisione francese ARTE. “Il 60% della popolazione irachena ha meno di 25 anni – sottolinea la reporter – è un Paese giovane ma nel quale i ragazzi non hanno alcuna prospettiva per il futuro: la disoccupazione è al 38%. Sono cresciuti dopo il 2003 e hanno vissuto costantemente in un clima di guerra. È dunque una generazione che rifiuta il conflitto settario e la divisione su base confessionale e, soprattutto, chiede dei diritti: protesta contro la corruzione, per l’assenza di servizi pubblici, per un futuro migliore. È una generazione che ha il cellulare in una mano e la bandiera irachena nell’altra: sono tutti connessi ai social che usano anche per coordinarsi e, soprattutto, non hanno bandiera religiosa, si sentono semplicemente iracheni. Appartengono a diverse classi sociali: ci sono disoccupati, ceti medio-bassi, laureati. Insomma, è un gigantesco microcosmo di un movimento eterogeneo trasversale e che non ha una leadership. Questi ragazzi hanno deciso di occupare letteralmente la piazza: dormono lì, vivono lì. Stiamo parlando di un movimento maturo, in termini di proposte e rivendicazioni”. “Un’escalation di violenza in una situazione di precarietà, come quella in cui versa l’Iraq – rimarcano Chiara Lovotti e Francesco Salesio Schiavi in un documentato report per L’ISPI – minaccia di trascinare il paese nella stessa spirale di instabilità che ha più volte caratterizzato il periodo post-Saddam, con il rischio che il malcontento popolare venga strumentalizzato sia da partiti e fazioni politiche, sia dalle numerose milizie e dai gruppi armati interessati ad accrescere la propria influenza. In altre parole, se la situazione che l’Iraq sta vivendo in questi giorni dovesse protrarsi e raggiungere un punto di non ritorno, il rischio sarebbe quello di rigettare il Paese nel caos e allontanare, ancora una volta, la parola “stabilità” dal vocabolario della storia irachena”.
Il caos armato non si risolve con guerre per procura. Con l’invio di mercenari o contractor. E’ il caso della Libia. “Non possiamo accettare altre truppe militari in Libia questo è il momento del dialogo e del confronto”, ha ribadito il premier Giuseppe Conte, al termine dell’incontro ad Algeri, il 16 gennaio, con il presidente della Repubblica Abdelmadjid Tebboune. “Dobbiamo affidarci al dialogo ed alla diplomazia che sono sempre più efficaci delle armi”, ha sottolineato Conte. L’Italia punta sull’Europa. E’ una scelta strategica. “L’Italia è il Paese che ha più subito, in Europa, la crisi migratoria degli ultimi 10 anni, in particolare da quando nel 2011 qualcuno bombardò la Libia. Ed è per lo stesso motivo che continuiamo a dire che non esiste una soluzione militare alla crisi libica”, scrive su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dopo aver incontrato, il 21 gennaio, tra gli altri, il vicepresidente della Commissione Ue Schinas.
“Abbiamo pagato colpe che non avevamo ed oggi all’Ue abbiamo inviato un messaggio chiaro: senza l’Italia, l’Ue non può farcela, e per questo ci aspettiamo che le nostre richieste siano accolte. Oggi – prosegue – ho incontrato il vicepresidente Schinas e la commissaria agli Affari Interni e per le Migrazioni, Ylva Johansson, ai quali ho riportato un concetto molto semplice: l’Italia è il Paese che ha dato di più in questi anni ed è stata lasciata sola, ora tocca a qualcun altro. Anche perché il nostro Paese rientra tra i 5 che hanno accolto più migranti in Unione europea, ma le richieste di asilo sono più alte altrove, ad esempio in Francia, e ciò dimostra che gran parte delle persone che sbarcano sulle nostre coste non hanno intenzione di restarci, anzi vogliono poi andarsene nel Nord Europa”. “Questo – secondo il titolare della Farnesina – deve spingere l’Unione europea ad intervenire con determinazione ed in prima persona. E le richieste dell’Italia sono molto chiare: intanto va superato Dublino ed il principio di ‘chi prima accoglie, poi gestisce’; poi ci sono i rimpatri volontari. L’Ue – ha proseguito – innanzitutto deve occuparsene ricorrendo a Frontex e lo deve fare elaborando una lista di Paesi sicuri dove rimpatriare, come abbiamo già fatto in Italia, al fine di velocizzare le operazioni. In questo senso, vanno pensati anche degli incentivi a livello Ue nei confronti di quei Paesi africani, e non solo, che si mostrano disposti a ricevere il rimpatrio. Incentivi commerciali o sulla politica dei visti”. Proposte concrete, che si accompagnano con nuovi investimenti nella cooperazione con i Paesi del Nord Africa e quelli subshariani. L’Africa, come opportunità e non come minaccia. Ecco un’altra scelta strategica compiuta dall’Italia. “La politica estera guardi all’Africa come a una terra di opportunità e responsabilità da entrambe le parti. Porteremo questa sensibilità nell’Unione Europea. Dobbiamo costringere tutti i paesi a conformarsi a questo modello di cooperazione.
Un nuovo modello di cooperazione di partenariato fra pari”. Così il premier Giuseppe Conte al Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, organizzato dalla Coldiretti con la collaborazione di The European House – Ambrosetti a Cernobbio, dove è stato presentato un progetto di cooperazione per l’Africa. Era il 12 ottobre 2019. I mesi successivi hanno dimostrato che non erano solo parole.