Da Reggio Emilia a Zhytomyr, diaspore per la pace in Ucraina
Un reportage scritto pochi giorni prima che cominciassero i bombardamenti. Alla scoperta di legami e persone che possono resistere
È un attimo, ma al telefono Nataliya Nagalevska sembra sorridere di nuovo. Come il 12 febbraio, quando l’avevamo incontrata all’ingresso della scuola, sulla porta due bandiere: quella ucraina e quella italiana. Forse sventolano ancora, quelle bandiere. E forse le lezioni riprenderanno presto, prima di quanto ora sia possibile immaginare. Chissà. “Abbiamo preparato il rifugio con le scorte di acqua e i biscotti” riprende al telefono Nataliya: “Può ospitare fino a 200 persone, che abitano nelle case qui accanto e nel quartiere vicino”. Parole e messaggi, inviati su Telegram o WhatsApp, che vanno dritto al cuore. Colpiscono, e non parliamo solo della guerra. È la solidarietà, a Zhytomyr, una città circa 150 chilometri a ovest di Kiev. Ed è l’amicizia tra popoli e Paesi, uniti dalla cultura e dal desiderio di offrire una prospettiva ai giovani nonostante tutto.
È questo l’impegno dell’istituto dove avevamo incontrato Nataliya, la Scuola Italia-Ucraina “Vsevsit”, fondata nel 1994 da un’ex prigioniera politica sovietica e da un sacerdote emiliano. Lei si chiama Sofia Beliak. È una signora minuta e battagliera, che era stata condannata a dieci anni di carcere ai tempi dell’Urss per aver diffuso libri religiosi. Lui invece si chiama don Giuseppe Dossetti ed è il nipote di un altro Giuseppe, partigiano, poi padre costituente e infine monaco in Terra Santa. Il sacerdote oggi ha 79 anni. Insieme con gli amici del Centro di solidarietà di Reggio Emilia onlus, era arrivato a Zhytomyr in pullman per visitare la sede episcopale latina più a oriente d’Europa. Il Muro di Berlino era caduto e l’Unione Sovietica non esisteva più. “C’eravamo appena conosciuti”, ricorda Beliak di quel primo incontro, “e don Giuseppe mi chiese: qual è il vostro progetto?” Eccolo: è la Scuola, nata grazie alla rete di solidarietà italo-ucraina. Nel 2020 i missionari di don Bosco ne hanno assunto la gestione e l’istituto è frequentato da 200 studenti, senza contare l’oratorio e il sostegno ai ragazzi con disabilità.
Lo avevamo visitato quando le classi era ancora piene, pochi giorni prima del 24 febbraio, quando è cominciata l’offensiva russa. In ucraino, “vsevsit” vuol dire “universo”; e Natalya, che nella scuola insegna italiano, ora ci risponde mentre dal cielo cadono bombe.
Il conflitto non recide però i legami. Lo confermano le storie che ancora in questi giorni, con oltre un milione e mezzo di persone già costrette a lasciare il loro Paese, coinvolgono le comunità di origine ucraina in Italia. Ce ne parla Ivan Sandulovych, 30 anni, 15 dei quali trascorsi a Bologna. È nella città emiliana che nel 2009 ha fondato l’Associazione Italia-Ucraina. “L’idea era creare un luogo di aggregazione e di assistenza per gli ucraini in Italia, ma dopo alcuni anni, in particolare con l’inizio del conflitto nella regione del Donbass nel 2014, si sono sviluppati nuovi progetti di aiuto internazionale” ricorda. “Raccolte fondi hanno permesso l’invio di ambulanze, materiali emostatici, farmaci e protesi per i soldati rimasti feriti”. Oggi, con il nuovo conflitto, l’impegno è garantire condizioni minime per l’accoglienza e l’aiuto degli sfollati: “Il primo camion è arrivato carico di prodotti alimentari, detergenti e saponi per l’igiene personale e kit di pronto soccorso”. Sandulovych parla al telefono da Chernivtsi, una città in riva al fiume Prut, a 25 chilometri dal confine con la Romania e l’Unione Europea. “Appena la distribuzione sarà finita, tornerà indietro a Bologna, dove c’è chi ci aiuta”.
Il sostegno ha tante vie. E spesso a indicarle sono le diaspore, comunità ponte tra l’Italia e il mondo anche nell’emergenza. Se ne discute durante un webinar dell’università Luiss Guido Carli, segnato allo stesso tempo dalla preoccupazione e dall’impegno per l’Ucraina. Prende la parola Abderrahmane Amajou, presidente del Coordinamento delle diaspore per la cooperazione internazionale del Piemonte (Codiasco), che rende omaggio alla “risposta tempestiva” nell’invio di aiuti e anche del “ruolo dell’amore, che spinge queste realtà a rinunciare a parte delle loro risorse per aiutare il proprio territorio d’origine”. L’incontro è l’occasione per annunciare la creazione di un fondo della Luiss per assegnare dieci borse di studio in Ucraina. Con l’ateneo si stanno muovendo altre realtà, dal nord al sud e poi ancora a Roma, dove La sapienza sta garantendo la permanenza in Italia di cinque studenti ucraini che avrebbero dovuto rientrare nel loro Paese a fine Erasmus. Bisogna dare un’opportunità, forse anche per i ragazzi della Scuola di Zhytomyr. Sembra di riascoltarle le parole di Anatolij Gryban, animatore ventenne dell’oratorio, un servizio aperto quattro volte la settimana per i ragazzi quartiere. “La pressione sull’Ucraina sta crescendo, le parole dei politici non ci piacciono” ci avvertiva. E poi ecco Nastya e Diana, 16 e 19 anni, che chiacchieravano accanto al tavolo da ping-pong. A chi chiedeva se avessero paura di una guerra avevano risposto rimanendo in silenzio e poi con un sorriso, imbarazzato e stupito: non se l’aspettavano, quella domanda.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
www.vincenzogiardina.org