“Le donne sono il futuro della Palestina. Non torneremo in cucina”. Parla Hanan Ashrawi
È stata la prima donna portavoce della Lega Araba, la voce dei palestinesi ai negoziati di Washington: “Più degli uomini capiamo l’importanza di costruire il nuovo. Nello Stato che vogliamo, non deve esserci discriminazione di genere”.
Di tutte le società arabe, quella palestinese è, nonostante tutto, la più plurale, anche se ancora tanto c’è da fare per raggiungere una effettiva parità di genere. Non è facile, soprattutto quando si vive sotto occupazione, tuttavia resto convinta che la qualità di una democrazia si misuri dalla presenza delle donne nella vita pubblica”. A sostenerlo è una delle figure palestinesi, più rappresentative e conosciute al livello internazionale: Hanan Ashrawi. Memoria storica, oltre che critica, della dirigenza palestinese, Hanan Ashrawi fu la prima portavoce della delegazione palestinese ai colloqui di Washington. E già questo rappresentò una novità che conquistò l’attenzione internazionale: perché donna, perché cristiana, perché autonoma rispetto a “quelli di Tunisi”, i dirigenti dell’Olp in esilio con Yasser Arafat. In seguito, è stata la prima portavoce donna della Lega Araba. Nel 1995 è uscito in Italia per la Sperling &Kupfer Editori il libro “Hanan Ashrawi. La mia lotta per la pace. Autobiografia di una donna scomoda”. Scomoda per la sua coerenza, per la sua determinazione, per la sua indipendenza intellettua le. Scomoda perché donna. Nel ricostruire gli eventi che portarono alla storica stretta di mano tra Yasser Arafat e Ytzhak Rabin e alla firma (settembre 1993) degli Accordi di Washington, Hanan Ashrawi annota: “Abbiamo dato avvio a una campagna per attribuire poteri alle donne e assicurarne la partecipazione su basi paritarie in tutti i campi della vita politica, economica e sociale. ‘Noi non torneremo in cucina!’”. Ventitre anni dopo, l’impegno continua, con una consapevolezza che non è venuta meno: “Le donne- rimarca Ashrawi – sanno perfettamente di poter essere sacrificate per prime ai fini dell’opportunità politica e per questa ragione hanno sentito, allora, l’imperativo e l’urgenza di esigere il proprio spazio. Mentre insistevamo per la nomina di donne all’interno dell’Autorità, ho ricevuto crescenti pressioni perché ‘tenessi una moneta in bocca’.
Cosa significa essere donna in Palestina?
Significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più opprimenti di una società patriarcale. Ecco, se dovessi operare una sintesi, direi che le donne palestinesi lottano per una doppia liberazione. E fanno questo dovendosi occupare di mandare avanti famiglie con tanti bambini e spesso da sole perché il marito o il figlio più grande è in un carcere israeliano.
Lei è stata tra le protagoniste della prima Intifada, quella che riportò al centro dell’attenzione internazionale la questione palestinese. Si parlò allora di una “rivolta delle pietre”…
Di certo fu una rivolta popolare, dal basso, che spiazzò completamente i partiti tradizionali, come al-Fatah e Hamas…
Che ruolo ebbero allora le donne e quale contributo specifico, magari poco sottolineato, hanno portato in quegli eventi?
Le donne furono protagoniste di quella rivolta, partecipando alle manifestazioni, con una determinazione che spiazzò gli stessi uomini. Lei mi chiede di un contributo poco sottolineato sia nelle cronache di quegli anni sia negli annali di storia. Le rispondo così: una grande concretezza. E la volontà di costruire qualcosa che restasse nel tempo. Forse perché la donna crea il futuro dando la vita ai figli, fatto sta che in quegli anni ricordò che le donne si preoccupavano che i propri bambini non fossero solo al sicuro ma che ricevessero una istruzione. Molte erano le maestre, le donne che insegnavano nelle scuole o all’università, e io sono tra queste. Una delle misure che l’esercito israeliano prendeva per prima dopo aver occupato una città, era di chiudere le scuole e le università. E non perché fossero covi di terroristi, ma perché l’istruzione, la cultura sono parte fondamentale di una identità nazionale che s’intendeva cancellare. Ricordo che facevamo lezione nelle case private, nei garage, ovunque fosse possibile. Ecco, questa sensibilità a far crescere un germoglio di speranza anche nel deserto di una occupazione, è qualcosa che le donne hanno portato nel movimento di resistenza.
Lei è una delle donne ai vertici della dirigenza palestinese. Una delle poche. E’ un limite?
Direi proprio di sì, anche se non sarei pessimista. Vi sono diverse parlamentari nel Consiglio legislativo palestinese, donne sindaco o con importanti ruoli nel campo economico e finanziario. Certo che molto deve ancora essere fatto, soprattutto sul piano legislativo e nel campo del diritto di famiglia. È del 1994 il “Memorandum dei Diritti delle Donne”: il documento sottoscritto dall’Anp “Autorità nazionale palestinese, ndr) accoglieva la Convenzione internazionale sulla “Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne” e richiedeva “giustizia, democrazia e eguaglianza di genere” all’interno delle strutture politiche “statali” palestinesi in formazione. Si tratta di un’acquisizione importante, pressoché unica nel mondo arabo, ma la sua traduzione in pratica è ancora molto lontana dall’essere compiuta. Penso alla violenza domestica, e penso alle opportunità di lavoro…
Sulla violenza domestica. Sono molte le associazioni per i diritti delle donne palestinesi ad aver denunciato un aumento delle violenze domestiche dal 2000 in poi – data di inizio della seconda Intifada – probabilmente come conseguenza del deteriorarsi delle già precarie condizioni economiche, politiche e sociali.
Sono in crescita anche gli stupri perpetrati dal marito o da altri familiari e le violenze durante i rapporti sessuali coniugali. La denuncia per stupro deve essere suffragata da “prove”, ma i codici legislativi egiziani e giordani, ancora in vigore in Palestina, non contemplano la violenza sessuale all’interno del matrimonio. Quindi, non è facile, per la vittima, ottenere il divorzio o la condanna – se mai decidesse di denunciarlo – del marito violentatore…
Stiamo lavorando su questo terreno che è molto delicato e che si scontra non solo con codici che andrebbero riscritti ma anche con una cultura radicata nel tempo. Ma tra le donne è cresciuta la consapevolezza dei propri diritti e la determinazione a vederli realizzati. Nel 2002 le attiviste delle ONG femminili hanno creato un “Forum contro la violenza alle donne”, una rete di 13 organizzazioni che collaborano contro la violenza domestica. Molte di queste organizzazioni sono ancora attive e sostengono a vari livelli le donne vittime di abusi e maltrattamenti. Sono sempre di più le donne che hanno il coraggio di denunciare le violenze subite in casa. E’ un processo di responsabilizzazione pagato a caro prezzo. Molte madri vittime di abusi non si ribellano perché temono di perdere la custodia dei figli, di essere buttate fuori di casa, di essere rifiutate dalla famiglia. Il divorzio è considerato come una vergogna, una colpa, anche se servirebbe per liberarsi dalla tirannia di un marito violento e pericoloso. Ma, ci tengo a sottolinearlo, la crescita di una consapevolezza nuova non solo dei propri diritti ma di un ruolo non subalterno nella società, nella famiglia, nella politica, è venuto avanti in questi anni, grazie anche ai progetti di cooperazione internazionale, di cui l’Italia è stata ed è tra i Paesi più attivi, che hanno puntato molto su questioni cruciali come l’istruzione, l’educazione sanitaria, e la costruzione di istituzioni democratiche che risultano tali anche perché contemplano i diritti delle donne.
Lei ha fatto riferimento in precedenza ai codici legislativi egiziani e giordani che non contemplano la violenza sessuale all’interno del matrimonio. Gli omicidi per ragioni di “onore” sono piuttosto diffusi in Palestina, sia nella Striscia di Gaza sia nella West Bank: la cronaca nera riporta spesso notizie di giovani trovate morte – strangolate, avvelenate, accoltellate, ecc. – dai propri familiari.
È qualcosa di terribile, contro cui ogni giorno combattiamo attraverso le associazioni delle donne e la messa a disposizione di avvocati. La violenza che segna la nostra condizione di palestinesi, un popolo sotto occupazione, può spiegare, in parte, ma non giustificare, in alcun modo, la violenza che le donne subiscono all’interno della famiglia. E un discorso di leggi, di codici, ma è anche un discorso culturale, di crescita collettiva. Per questo sono importanti i progetti per l’istruzione e l’educazione sessuale che poi significa avere consapevolezza di sé e del proprio corpo. Passi in avanti sono stati fatti, non siamo all’anno zero, tuttavia va riconosciuto che la società palestinese, in particolare quella delle zone rurali, non è ancora adeguatamente preparata a riconoscere e a perseguire la violenza sessuale: le vittime sono colpevolizzate, accusate di “essersela cercata” con comportamenti o abbigliamento “sbagliati”, e spesso rischiano di essere uccise perché “l’onore sia lavato”. La vittima è trasformata in colpevole, in capro espiatorio della violenza altrui….
Una violenza che si conosce e si subisce anche in carcere…
È così. Nel corso degli anni sempre più donne sono state arrestate dall’esercito israeliano e nelle carceri hanno conosciuto situazioni di promiscuità, le ragazze in particolare, è una pressione fisica e psicologica che spesso ha sconfinato nella tortura. Vi sono in proposito rapporti documentati delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Dover convivere ogni giorno con la violenza è qualcosa che segna per tutta la vita e rischia di permeare ogni ambito delle relazioni umane. Eppure, nella società palestinese le donne hanno conquistato spazi che nessuno ha regalato loro. E questo è un investimento per il futuro, quando vivremo da donne libere nello Stato di Palestina.