Dopo il G20: sui vaccini è in gioco la credibilità
Al termine del vertice di Roma, sono state chieste azioni concrete per la “salute globale”. Un accordo tra Aics e Iss indica la strada. Ma mantenere gli impegni non sarà facile.
“Non credere che si possa diventare felici procurando l’infelicità altrui”. E ancora: “Non sono nato per stare in un cantuccio, la mia patria è il mondo intero”. Citazioni del filosofo latino Lucio Anneo Seneca, sulla bocca di padre Aniedi Okure, origini nigeriane, per 30 anni negli Stati Uniti, ora diviso tra Roma e Ginevra, dove rappresenta i domenicani al Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ci parla del “mondo” quando nel quartiere dell’Eur, oltre le geometrie di vetro e acciaio del centro congressi La Nuvola, si sono spenti i giochi delle luci bianche, rosse e verdi. Il 30 e il 31 ottobre Roma è tornata capitale del mondo, ospitando i capi di Stato e di governo del G20, il forum che riunisce le maggiori potenze. Di “visione globale” e “fratellanza universale” padre Okure dice ancora citando Papa Paolo VI e affrontando uno dei temi chiave del vertice, la lotta contro la pandemia di Covid-19: “Il virus si è manifestato in Cina e in pochi giorni, prima che ce ne accorgessimo, proprio per via dei nostri spostamenti continui, ha colpito tutto il pianeta”.
Gli impegni dei “grandi” sono nero su bianco nella dichiarazione approvata al termine del forum. C’è anzitutto la promessa di “intensificare gli sforzi” per “contribuire agli obiettivi di immunizzare il 40 per cento della popolazione mondiale entro fine anno e il 70 per cento entro metà 2022”. Nel testo, frutto di una mediazione complessa tra agende spesso non coincidenti, tra Stati Uniti e Cina, India e Russia, Paesi europei e Turchia, Brasile e Sudafrica, si sottolinea la necessità di “aumentare e diversificare la capacità globale di produrre vaccini a livello locale e regionale”. Tra i punti della dichiarazione figura il sostegno ai Paesi a basso e medio reddito attraverso “hub per il trasferimento delle tecnologie”, sulla scia dell’esperienza dei “nuovi poli per l’Rna messaggero in Sudafrica, Brasile e Argentina”, e attraverso “accordi per la produzione congiunta”. Un ultimo impegno riguarda la creazione della Task force congiunta finanze-salute. Due, in questo caso, i compiti chiave: favorire gli scambi per la prevenzione e la risposta alle pandemie; fissare le linee guida per un nuovo fondo che, con il supporto delle banche multilaterali per lo sviluppo, provveda a garantire risorse indispensabili ai Paesi più svantaggiati.
Il 31 ottobre, a chiusura dell’anno del G20 a guida italiana, il presidente del Consiglio Mario Draghi è stato omaggiato come “leader dell’Europa” e “interlocutore chiave” dal New York Times. Altri quotidiani internazionali lo hanno descritto come mediatore capace di favorire soluzioni di compromesso in una fase difficile. Al termine del vertice, però, Draghi ha sottolineato che agli accordi di principio devono seguire i fatti: “Ora la credibilità dipende dalle nostre azioni”. Secondo Jean Pierre Darnis, docente presso l’Université Côte d’Azur di Nizza e la Luiss Guido Carli di Roma, “l’anno di presidenza del G20 è andato nel complesso bene, grazie alla bravura della diplomazia italiana, tradizionalmente multilaterale, in grado di favorire accordi importanti come quello sull’aliquota fiscale minima al 15 per cento per le multinazionali del comparto digitale”. Sui traguardi elencati nella lotta al Covid, però, il professore avverte: “Bisognerà vedere come raggiungerli”.
Una delle difficoltà riguarda i vaccini. Al termine del G20, Draghi ha detto che gli ostacoli sono anzitutto “logistici” e legati alla distribuzione, non quindi produttivi. È la linea tenuta da oltre un anno, in contrapposizione alla richiesta di una moratoria dei brevetti avanzata da India e Sudafrica all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), sostenuta ormai da 120 Paesi. “L’Italia non ha mai denunciato l’intransigenza su questo tema della Germania di Angela Merkel, allontanando così la possibilità di un accordo per la sospensione dei diritti di proprietà intellettuale, che richiede l’unanimità”, accusa Riccardo Moro, esperto della rete Civil20, uno dei cosiddetti “engagement group” del G20. “Se ci si fosse mossi in tempo non saremmo di fronte a un nuovo apartheid vaccinale, con i Paesi ricchi dove è immunizzato in media il 60 per cento della popolazione e l’Africa ferma al 5 per cento”.
Di dosi parla anche don Dante Carraro, direttore dell’ong padovana Medici con l’Africa Cuamm. “Se in Marocco il tasso di immunizzazione ha raggiunto il 40 per cento”, calcola, “in Sud Sudan sono stati consegnati appena 170mila vaccini e non siamo neanche all’1 per cento della copertura”. Secondo don Carraro, che in Sud Sudan è stato nei mesi scorsi per monitorare i progetti sanitari della sua organizzazione, “ci sono poi le difficoltà nel far arrivare le fiale dalla capitale Juba fino all’‘ultimo miglio’, alle comunità più remote”. Eppure è proprio questo, il diritto universale alle cure, il principio che dovrebbe ispirare l’agenda del G20. Lo stesso peraltro al centro di un accordo sottoscritto l’11 novembre a Roma dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) con l’Istituto superiore della sanità (Iss). L’obiettivo, è stato evidenziato in occasione della firma, è “migliorare le iniziative volte a tutelare la salute delle popolazioni dei Paesi partner”. Secondo Luca Maestripieri, il direttore di Aics, “l’Agenzia lavora con un approccio universalistico dello sviluppo umano centrato sulle persone e considera la salute sia un diritto che una condizione e un’opportunità per lo sviluppo”. Sulla stessa linea Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss: “La pandemia rende ancor più evidente l’importanza di un approccio globale alla salute, perché nessuno è sicuro finché non siamo sicuri tutti”.
Sul punto ritorna padre Okure, allargando lo sguardo ed evidenziando le criticità: “Il Covid ha rivelato le disuguaglianze e le ingiustizie provocate da un sistema economico fondato sul profitto, che ha sottoposto alle sue logiche persino i vaccini, i test e i dispositivi di protezione personale indispensabili contro il virus” la sua tesi. “Anche quando parliamo di terza dose, mentre c’è chi non ne ha potuta avere nessuna, dovremmo interrogarci su cosa vuol dire ‘bene comune’”.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
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