La salute è sicurezza. E va tutelata anche nei Paesi in guerra.
Si tratti di Medio Oriente, Ucraina, Sudan o Mozambico. Ne parla Francesco Moschetta, manager del Fondo globale per la lotta contro l’aids, la tubercolosi e la malaria, a margine di un seminario dell’Istituto affari internazionali.
La salute è un diritto, anche in tempi di guerra. “Ed è possibile proteggerlo soltanto insieme, attraverso gli strumenti della cooperazione internazionale”, sottolinea Francesco Moschetta, esperto di situazioni di emergenza, già al lavoro in Afghanistan e Repubblica democratica del Congo, ora manager del Fondo globale per la lotta contro l’aids, la tubercolosi e la malaria. “Circa il 53 per cento delle nostre risorse è investito in contesti di conflitto, dall’Ucraina al Mozambico” dice a Oltremare rispetto alle scelte dell’organismo, nato nel 2001, su impulso dell’allora G8 a presidenza italiana. Di recente il Fondo ha costituito una unità di crisi. “Per colmare i vuoti che si possono creare nel sistema”, spiega Moschetta. “Abbiamo una responsabilità e non possiamo abbandonare né i Paesi né le persone, che magari stanno seguendo cure contro il virus dell’hiv o la tubercolosi”.
Il discorso vale dal Medio Oriente all’Africa subsahariana, come sottolineano gli esperti partecipanti insieme con Moschetta a una tavola rotonda su “salute e sicurezza” promossa a Roma dall’Istituto affari internazionali (Iai). L’Europa si prepara intanto al 20 gennaio, quando Donald Trump tornerà alla Casa Bianca per guidare il Paese numero uno al mondo dal punto di vista dei contributi finanziari alle agenzie e agli organismi multilaterali. A Moschetta chiediamo pure dell’Italia. “È il nostro nono finanziatore e siede nel Consiglio direttivo” risponde. “Inoltre, tramite le risorse dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo legate al contributo nazionale, da anni molte organizzazioni della società civile e università realizzano progetti in vari Paesi africani che rafforzano i programmi del Fondo, specialmente nelle zone più remote e in favore delle comunità più vulnerabili”.
E Trump, che promette di rimettere l’America “al primo posto”, come si comporterà? “Gli Stati Uniti devono restare impegnati”, sottolinea Moschetta, mentre gli europei devono fare “la loro parte” confermando e accrescendo i contributi agli organismi multilaterali che promuovono il diritto alla salute. Un punto chiave sarebbe il “matching”, una parola inglese traducibile come “corrispondenza”. Per legge, il governo americano può contribuire al massimo per un terzo delle risorse complessive del Fondo globale: per ogni due dollari messi a disposizione dai vari donatori, gli Stati Uniti ne mettono uno. “La necessità dell’impegno”, sottolinea Moschetta, “vale ovviamente anche per l’India, la Cina e tutti gli altri attori che sono interessati a far funzionare i meccanismi multilaterali”. Si torna poi al ruolo storicamente ricoperto dagli Stati Uniti. “Il Fondo globale è stato voluto dai repubblicani e ha ricevuto un contributo dal governo americano anche durante il primo mandato di Trump” ricorda Moschetta. “Adesso bisogna capire che se si rallentasse si metterebbero in discussione i progressi ottenuti finora nel contrasto alle tre malattie”.
A guardare avanti è anche Matteo Bursi, ricercatore dello Iai autore di uno studio presentato durante la tavola rotonda. La sua tesi è che le minacce sanitarie continuano a non essere interpretate dai policy maker come minacce per la sicurezza. “Mentre lo sono, e in modo anche consistente” avverte lo studioso: “Ce lo ha insegnato il covid-19, come prima altre epidemie, dall’hiv a ebola”. L’incontro allo Iai nasce dall’esigenza di porre il problema all’attenzione dei decisori politici e dei media. “Anche se nel caso del virus mpox qualche lezione appresa l’abbiamo notata” riconosce Bursi: “L’agenda del G20 ha compreso un incontro congiunto dei ministri delle Finanze e della Salute, che hanno trattato del ‘vaiolo delle scimmie’”.
Lo studio è costruito anche sulle testimonianze di ufficiali delle forze armate italiane. Bursi sottolinea che “in tanti hanno denunciato la scarsa attenzione che è posta su malattie veicolate dalle zanzare anche nell’Europa continentale e nel nostro Paese, in zone interessate da cambiamenti delle condizioni climatiche e atmosferiche”. Il riferimento è in particolare alla dengue, con casi autoctoni censiti in Emilia-Romagna, nella pianura padana, e in altre regioni. “Si tratta di rischi”, avverte il ricercatore, “a volte non presi in debita considerazione”.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
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