Le piazze giovani. La speranza del futuro
Da Baghdad a Beirut, dal Medio Oriente al Sud America, dall’Africa all’Asia: in lotta contro i “ladri di futuro”, per la globalizzazione dei diritti, rigettando i tribalismi etno-confessionali
Non accettano bandiere di partito alle loro manifestazioni. Non si lasciano abbindolare da vecchi richiami ad appartenenze etno-confessionali, o partitiche, che sono fuori dal loro sentire comune e dall’idea di democrazia che li unisce. Non sono alla ricerca di un leader carismatico, tantomeno di vecchi arnesi della politica in vena di riciclaggio, ragionano in termini di “noi” e non di “io”. Diffidano da politicanti che pur di mantenersi al potere cercano di rifarsi una perduta verginità dichiarandosi, a parole, al loro fianco. Rispondono con la non violenza e la disobbedienza civile a coloro che conoscono e praticano da sempre il linguaggio della forza. La loro lotta è contro i “ladri di futuro”. Dal Libano all’Iraq, sono i giovani i protagonisti delle rivolte che stanno ridisegnando il volto del Medio Oriente. Quella in atto, a Baghdad come a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la rivoluzione dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni, libanesi, e non sunniti o sciiti, cristiani… Scendono in piazza sventolando bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l’alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica. “Le nostre richieste? Vogliamo lavorare, vogliamo lavorare. Se non vogliono trattarci come iracheni, allora ci dicano che non siamo iracheni e troveremo altre nazionalità e migreremo in altri paesi”, afferma un manifestante a Bagdad. La frustrazione coinvolge particolarmente i giovani fra i quali in tasso di disoccupazione è elevatissimo (quindici per cento contro l’otto per cento della media nazionale).
“Questo non è un governo – gridava un manifestante – ma è un’accozzaglia di partiti e milizie che hanno distrutto l’Iraq”. E la protesta continua nonostante una repressione che ha provocato oltre 450 morti e 15mila feriti. Fonti ufficiali riferiscono che dal 2004, a un anno di distanza dall’invasione statunitense che ha determinato la cacciata di Saddam Hussein, circa 450 miliardi di fondi pubblici sono svaniti nelle tasche di politici e uomini di affari. In questa situazione, corruzione e politica appaiono intrinsecamente connessi, secondo quanto riporta il quotidiano The New Arab. Non solo i ministri sono spesso implicati nelle frodi, ma il settore pubblico è sovradimensionato e facile da truffare e si contraddistingue per le migliaia di impiegati “fantasma” che percepiscono stipendi, senza lavorare in realtà. Secondo i dati parlamentari, dal 2003 queste uscite sono costate all’Iraq 228 miliardi di dollari, anche se il numero potrebbe essere significativamente più alto. Le diverse fazioni che si contendono il potere, l’influenza e l’accesso ai fondi del tesoro hanno come primo interesse quello di continuare a finanziare le proprie reti. La corruzione è all’origine delle gravi difficoltà economiche e dell’aumento della povertà e della disoccupazione. È il principale motivo per cui mancano i servizi di base. Il fabbisogno energetico dell’Iraq non è coperto neanche per metà nonostante dal 2003 a oggi siano stati spesi quaranta miliardi di dollari per la rete elettrica. Il parlamento è estremamente corrotto. Su 328 parlamentari iracheni, 273 non hanno voluto svelare la loro situazione finanziaria al Comitato per l’integrità.
“Il vero male dell’Iraq oggi è la corruzione le cui conseguenze negative si riversano sulla vita di tutti i giorni della popolazione. La corruzione nega i diritti delle persone, crea povertà, blocca lo sviluppo” racconta al Sir dalla capitale irachena Nabil Nissan, da undici anni direttore Caritas Iraq. Tangenti e clientelismo: sono questi i nemici degli iracheni “preoccupati anche dall’instabilità politica, dalla presenza delle milizie paramilitari che hanno combattuto l’Isis, dalla mancanza di sicurezza”. Una speranza di cambiamento che deve fare i conti con la brutalità dei suoi nemici. Da Piazza Tahir, cuore della rivolta irachena, a Piazza dei Martiri, la piazza di Beirut cuore della “rivoluzione di velluto” dei giovani libanesi. Ciò che le Forze che tengono ingabbiato il Libano non possono accettare è uno dei meriti maggiori della “primavera libanese”: quello di voler superare le divisioni settarie che avvelenano il Medio Oriente. “È una grande notizia – annota Pierre Hasky di France Inter su Internazionale – dopo anni segnati dal conflitto tra sciiti e sunniti, dalle persecuzioni contro le minoranze e dal califfato fondamentalista, così come è bello ascoltare lo slogan dei libanesi, ‘tutti significa tutti’, espressione della volontà di lasciarsi alle spalle un sistema politico fondato su un comunitarismo religioso. Certo, non si possono cancellare in un solo colpo secoli di divisioni e guerre, ma un ’libanese nuovo’ sta emergendo dalle manifestazioni: giovane, attivo su internet e deciso a uscire dalla ‘prigione’ mentale settaria. I manifestanti contestano l’alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica. Il Paese dei Cedri ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo (circa 77 miliardi di euro, corrisponde al 150 per cento del prodotto interno lordo), ma il livello di profitti delle sue banche commerciali, vicine ad alcuni politici e che detengono gran parte del debito, sono superiori a quelli dei Paesi occidentali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei redditi il Libano è al 129° posto su 141 paesi. L’un per cento più ricco possiede il 25 per cento dell’intero redito nazionale.
Nel 2017 il venti per cento di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1 per cento del totale dei depositi nelle banche libanesi, molte delle quali sono dei politici di turno o dei loro parenti. Le proteste erano iniziate contro il piano del governo di imporre nuove tasse su diversi beni e servizi, tra cui il tabacco, la benzina e le telefonate fatte via internet. A Beirut i blackout programmati vanno dalle 3 alle 6 ore al giorno, fuori dalla capitale si arriva invece anche a 12 ore senza elettricità. Chi può permetterselo, copre le ore di “buco” acquistando un generatore, finendo così per alimentare un business gestito da soggetti (in questo caso vicini a Jumblatt, leader druso del Partito socialista progressista) che hanno interesse nel mantenimento del precario status quo. Anche l’approvvigionamento idrico è un problema – in alcune aree costiere della capitale l’acqua della doccia è salata – solo parzialmente lenito dalla presenza di due navi cisterna turche “parcheggiate” sulla costa libanese. A chiunque si trovi in Libano non può sfuggire, poi, l’emergenza rifiuti, che nel 2015 stimolò una prima rabbiosa protesta della popolazione, riunita attorno al movimento della società civile “You stink” (Voi puzzate): il problema, sorto ormai 7 anni fa, non è stato mai risolto. Anzi, in alcuni frangenti si è aggravato, soprattutto dopo la chiusura di alcune discariche, e l’apertura di quella di “Costa brava”, sulla spiaggia che lambisce l’aeroporto, che due anni fa provocò anche alcuni problemi di sicurezza (i gabbiani che volavano sopra i rifiuti “sconfinavano” spesso sulle piste di atterraggio). Infine, la logica del “wasta”.
Tradurlo con “raccomandazione” non renderebbe l’idea del radicato meccanismo clientelare che sottende, insito nel sistema confessionale libanese: chi cerca lavoro in Libano – dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40%, cifra che cresce moltissimo se si considerano i non contrattualizzati – nella quasi totalità dei casi deve conoscere qualcuno che lo metta in contatto col politico cristiano, sunnita, sciita, druso (a seconda dell’appartenenza del “richiedente”), che cercherà una occupazione per lui in cambio di una implicita (o esplicita) promessa di “fedeltà”. Semplificando, un voto di scambio, che finisce indirettamente per rafforzare la legittimità dell’establishment, oggi integralmente sotto accusa. “Il Libano è un non stato, come ha dimostrato qualche anno fa la paradossale “crisi della spazzatura”, dovuta all’incapacità del potere pubblico di gestire i rifiuti della capitale. Quella era stata la prima avvisaglia di ciò che sta accadendo oggi, con la ribellione di un popolo intelligente e maturo che merita qualcosa di più di un presidente che invita i giovani scontenti a emigrare. Finora soltanto l’esercito è stato risparmiato dalla contestazione, e questo lascia pensare che i militari potrebbero avere un ruolo chiave nell’immediato futuro, rimarca ancora Hasky. La rivoluzione laica non si fa ingabbiare. Una riprova la si è avuta il 22 novembre, quando migliaia di libanesi sono tornati in piazza a Beirut e nelle altre principali città del Paese nel giorno dell’indipendenza nazionale.
I manifestanti hanno inscenato una “parata civile” in piazza dei Martiri e nella vicina piazza Riad Solh, luoghi simbolo della mobilitazione contro il sistema politico, in risposta alla tradizionale parata militare organizzata dalle autorità. Un evento senza precedenti nella storia del Paese dei Cedri. “È stata una giornata emozionante – dice Mirna, una delle organizzatrici – una giornata di festa. Eravamo, siamo uniti da una comune volontà di cambiamento, non importa se sei sciita, sunnita, cristiano o cos’altro, importa voler costruire un Paese dove vali per quel che sei e non per la tua appartenenza confessionale, o perché ti genufletti a qualche potente locale. Per noi libertà, giustizia, trasparenza, condivisione, non sono parole vuote ma valori per cui vale la pena battersi. Crediamo in un cambiamento dal basso, nell’importanza di investire nell’istruzione e diciamo no ai ladri di futuro. Dicono che siamo degli idealisti. Ma questo per noi è un merito, non una colpa. Sappiamo che giovani con i nostri stessi ideali si sono mobilitati in tanti altri Paesi, non solo in Medio Oriente, ma anche in Asia, in Africa, in America Latina, in Europa…”. Giovani che si battono per salvare il pianeta, minacciato da cambiamenti climatici prodotti da devastanti politiche di sfruttamento dei territori, per la giustizia sociale, contro le crescenti disuguaglianze che marchiano il presente e ipotecano l’esistenza di miliardi di persone. Si battono per la globalizzazione, sì, ma la globalizzazione dei diritti, sociali, civili, di cittadinanza, per la parità di genere. Il futuro è loro.