Lezioni di peacebuilding dopo lo scacco afghano
Il monito di Bernardo Venturi, esperto di processi di pace, a colloquio con Oltremare: “Basta militarismo, coinvolgere le società civili”
Scuole, strade, centri di salute, ospedali. Servizi che gruppi armati, ribelli o jihadisti non sono in grado di fornire. Antidoto alla radicalizzazione dei giovani che creano fiducia. Presupposto di pace, perché puntare solo sulle forniture militari, il training agli eserciti o la repressione non funziona. Anzi: senza partecipazione sociale, si rischia di favorire abusi, corruzione e di conseguenza conflitti. Parole e nessi, idee e proposte, al centro il 20 ottobre di un incontro del Festival della Diplomazia – Diplomacy dal titolo The Future Institution Building after the Afghan Setback. E di “costruzione delle istituzioni”, dopo lo “scacco” di Kabul tornata lo scorso anno ai talebani, parla con Oltremare Bernardo Venturi. Docente dell’Università di Bologna e associate fellow presso l’Istituto affari internazionali (Iai), è autore di studi sui conflitti elaborati in atenei o centri specializzati in Gran Bretagna, Thailandia, Moldavia, Stati Uniti o Norvegia. Il filo rosso sono i processi di mediazione, che analizza ora in Italia come direttore e co-fondatore dell’Agenzia per il peacebuilding.
La conversazione comincia dall’Afghanistan ma porta al Sahel e più a sud, fino al Mozambico. “Sono stato di recente dall’altra parte del confine, nella regione tanzaniana di Mtwara, dove è evidente che per scongiurare un allargarsi del conflitto armato da oltre frontiera bisogna investire nella prevenzione dell’estremismo violento, creando fiducia nella popolazione”. Ricominciamo però dall’incontro del 20 ottobre. Con una domanda: quali sono le lezioni da apprendere dal fallimento dei 20 anni di intervento militare degli Stati Uniti e degli alleati della Nato, dunque anche dell’Italia? “Quest’esperienza conferma che la chiave è il coinvolgimento delle società locali” risponde Venturi. “Sin dalla decisione americana di muovere guerra ai talebani forzando l’interpretazione dell’articolo 5 della Nato ha dominato un approccio militarista dal quale non si è mai usciti, improntato al regime change e all’hard security: con queste premesse la costruzione delle istituzioni è risultata un processo top-down, imposto cioè dall’alto verso il basso, con un livello ridotto di coinvolgimento popolare”. Non è bastato l’aumento dell’alfabetizzazione e delle possibilità per le ragazze. Secondo dati della Banca mondiale, per dire, in Afghanistan la quota di bambine iscritte alle scuole elementari è passata tra il 1999 e il 2018 dal 4 all’83 per cento. “La cooperazione allo sviluppo ha permesso di raggiungere risultati positivi”, commenta il direttore, “ma alcuni aspetti sono sempre rimasti problematici, come ad esempio pensare che giuristi occidentali potessero fornire indicazioni su come scrivere la Costituzione di un Paese con una storia millenaria”.
Non si tratta solo dell’Afghanistan. Il monito a “non trapiantare modelli” riguarda anche altre regioni del mondo. Prendete il Sahel, un’area dell’Africa dove negli ultimi anni l’Europa e anche l’Italia hanno investito in termini di training degli eserciti, forniture militari e sostegno alla sicurezza. “Dal 2020 solo in tre Paesi ci sono stati cinque golpe guidati da ufficiali delle forze armate” ricorda Venturi alludendo a Mali, Burkina Faso e Guinea. “Gli aiuti agli eserciti finiscono nelle mani di gruppi putschisti e si crea un distacco totale tra questo tipo di sostegno e le esigenze di settori importanti della popolazione”. Il rischio è quello di alimentare corruzione e abusi, spesso anche dovuti a errori di valutazione: come se il fatto che al potere ci siano governi considerati “amici” sia di per sé “una soluzione”.
Ma come ridurre questo pericolo? Alcune proposte sono contenute nella ricerca L’Italia e il peacebuilding pubblicata dall’Agenzia quest’anno. Le raccomandazioni sono rivolte ai decisori politici, a cominciare dai dirigenti del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Tra i punti in evidenza “un maggiore sostegno alle ong operative sul campo”, “l’istituzione di un fondo per interventi di costruzione della pace presso il ministero” e “la creazione di una task force dedicata al peacebuilding”. La lettura è che per i processi di mediazione e dialogo sociale l’Italia possa fare di piu’. Finora l’accento sarebbe stato posto soprattutto sull’“intervento umanitario” e sullo “sviluppo tradizionale”. E al di là di casi specifici, come la Comunità di Sant’Egidio o altre realtà legate alla Chiesa cattolica, l’Italia resterebbe indietro anche rispetto ad altri Paesi europei. “Svezia e Norvegia hanno agenzie specializzate e pure la Germania si muove” annota Venturi: “La ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha aperto i lavori di una recente conferenza a Berlino sottolineando il contributo nazionale al sistema giudiziario del Sud Sudan come strumento di prevenzione dei conflitti”.
Intervenire prima per non dover intervenire dopo: è un punto ritorna. Significa ad esempio che offrire armi e training all’esercito del Mozambico in lotta con i gruppi di matrice islamista nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove si concentrano giacimenti di gas tra i piu’ promettenti al mondo, non è la stessa cosa che rendere disponibili servizi socio-sanitari e opportunità di lavoro per le comunità locali, colpite da livelli record di mortalità materno-infantile e povertà. “Una cosa non esclude l’altra” chiarisce Venturi, che però aggiunge: “Il punto è l’ordine delle priorità, cioè dove si investono risorse maggiori e dove la narrazione politica mette l’accento”. Si ricorda la missione in Tanzania al confine con il Mozambico, “eldorado” del gas dove però le persone sfollate a causa delle violenze dilagate dal 2017 sono ormai circa 800mila. “Nella regione di Mtwara i nostri advisor si concentrano sul lavoro di prevenzione” evidenzia Venturi. “Ong come Search for Common Ground o Mercy Corps aiutano il governo locale anche formando unità di polizia, non nelle tecniche repressive ma nell’ausilio ai villaggi tramite l’early warning, l’allarme sistematico sul rischio di incursioni di gruppi armati da oltre frontiera: la fiducia popolare e la pace si costruiscono anche così”.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
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