Mediterraneo, le rotte della disperazione e del profitto
Non solo Libia. Paesi di transito si stanno trasformando in Paesi di origine: Algeria, Tunisia, Marocco. Crisi economica e reclutamento jihadista: una miscela esplosiva.
Provi a chiudere una rotta, se ne aprono altre tre. Il problema dei problemi si chiama frontiere esterne. Che poi si traducono in rotte: quella libica, quella tunisina e ora anche quella algerina. Tre rotte per tre Paesi che, ognuno con la sua specificità, presentano segni preoccupanti di crisi: politica, sociale, istituzionale. Si emigra per disperazione, ma anche per protesta. E’ il caso dell’Algeria. “La migrazione degli algerini, la harga, è un problema perché uccide molte persone – annota Kamel Daoud, in un pregnante reportage per The New York Times, riportato da Internazionale -. Ma soprattutto è un problema per il governo di Algeri: il fatto che i suoi cittadini intraprendano un viaggio così pericoloso è la prova evidente dei suoi tanti fallimenti, politici ed economici, della sua politica repressiva, della disoccupazione e dell’aumento del costo della vita…”.
Tutti, rimarca Daoud, conoscono i corridoi di fuga. Dall’estremità orientale del paese, a circa cinquecento chilometri da Algeri, si parte verso l’Italia. Dalla regione di Orano, nella parte occidentale del paese, la destinazione è invece la Spagna. Per partire bisogna mettere in conto una spesa di quasi mille euro (il salario minimo garantito in Algeria è di 18mila dinari al mese, meno di 130 euro al tasso di cambio attuale al mercato nero), che non comprende l’attrezzatura di salvataggio né provviste.
La traversata verso la Spagna, spiega lo scrittore e giornalista algerino, dura un giorno, nel peggiore dei casi due. Il fatto è, che Madrid ha securizzato la “rotta algerina” e questo ha finito per rafforzare la tratta per l’Italia (aprendo peraltro un quarto fronte: quello col Marocco). Ecco allora riemergere la necessità di un “patto euro-mediterraneo” che non lasci sola l’Italia a farsi carico dei salvataggi in mare, e dell’accoglienza, e, con una visione più lungimirante, riporti a Bruxelles la questione, ineludibile, di un “Piano Marshall per l’Africa”.
Se mi chiedi qual è la mia più grande preoccupazione in questo momento, allora dico la Spagna”. A sostenerlo è il direttore di Frontex, Fabrice Leggieri, in un’intervista rilasciata domenica 8 luglio al quotidiano tedesco Welt Am Sonntag, nella quale ha chiarito che la rotta più importante intrapresa dai migranti provenienti dal Niger, attraverso il Marocco, è quella che procede verso la Spagna.
Sempre più spesso i trafficanti del Niger offrono ai migranti di portarli in Europa attraverso il Marocco, anziché la Libia. A giugno, si sono avuti circa 6mila attraversamenti irregolari di frontiera dall’Africa nel Mediterraneo occidentale: “Se i numeri crescono lì come hanno fatto negli ultimi anni, questo percorso diventerà il più importante”, avverte Leggeri. Quella che si sta consumando sulle due sponde del “Mare nostrum” è una partita che investe affari, petrolio, geopolitica, nuovi equilibri di potenza in una delle aree più turbolente del pianeta. Una partita che, sul fronte-migranti, sta assumendo tratti nuovi e, per l’Italia, allarmanti. Perché, a Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine.
E’ il caso della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”. Sicurezza è sviluppo, investimenti che diano speranza, cioè lavoro, a popoli giovani.
Vanno in questa direzione i finanziamenti per 5,5 miliardi di euro che saranno assegnati alla Tunisia da otto fondi internazionali. Le istituzioni coinvolte nell’iniziativa sono l’Agenzia francese per lo sviluppo, la Banca africana per lo sviluppo, la Banca europea per gli investimenti, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca tedesca per lo sviluppo, la Società finanziaria internazionale. I fondi, ha spiegato il commissario europeo per la Politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento Johannes Hahn, serviranno a sostenere il Paese nel corso del processo di costruzione democratica, e risponde, in termini concreti e vincolanti, all’appello del presidente tunisino Beji Caid Essebsi ai partner della Tunisia affinché appoggiassero la giovane democrazia tunisina in un passaggio di estrema delicatezza.
Un discorso che investe l’insieme del Nord Africa. Sviluppo, benessere, lavoro sono le “armi” più incisive per contrastare il proselitismo jihadista tra i giovani attratti dalle organizzazioni dell’islam radicale armato anche, e per certi versi soprattutto, dal “salario” erogato. In questo contesto, emerge il “caso Marocco”. Marocco, fucina di jihadisti. Il Marocco è il secondo esportatore di terroristi dell’Africa del Nord, dopo la Tunisia. Sono oltre duemila i combattenti di origine marocchina che si sono arruolati nell’Isis in Siria e Iraq. Anche negli attentati di Barcellona e di Turku, in Finlandia, gli autori sono originari del Marocco. Da tempo lo Stato islamico ha sguinzagliato in Marocco (così come anche in Tunisia ed in Libia) dei “persuasori” che avvicinano giovani sbandati, dando loro in occasione di ogni incontro un po’ di denaro (l’equivalente di una quarantina di euro per volta), sino a quando non li convincono ad arruolarsi.
L’ultimo incontro, quello decisivo, si conclude con la consegna di 7500 dirham (quasi 700 euro) ed un biglietto di sola andata, quasi sempre per la Turchia. Soldi che i ragazzi quasi sempre consegnano alle famiglie, ben sapendo che, dalle settimane successive, se riusciranno a salvare la pelle, avranno un vero e proprio stipendio. Il “mare” in cui pescano i reclutatori del Daesh è soprattutto quello dei giovani delle periferie delle grandi città, Rabat, Casablanca, Tangeri (il 75 per cento) ma anche quello dei ragazzi che vivono nelle zone rurali dimenticate dai piani di investimento, sviluppo e incentivo all’occupazione.
Criticato dalle organizzazioni per i diritti umani per la conseguente limitazione di libertà politiche di base, il governo ha utilizzato il capillare monitoraggio del territorio per impedire la nascita di reti maggiormente strutturate. Una città in particolare, Tetouan, sembra rappresentare la simbologia del terrorismo in Marocco: da Tetouan sono usciti circa 30 kamikaze che si sono immolati in Iraq ed una parte della filiera protagonista dei sanguinosi attentati alla stazione di Atocha a Madrid, l’11 marzo 2004 (il più atroce nella storia della Spagna, 119 morti e 1800 feriti). Gli investigatori spagnoli hanno individuato una cellula di 12 giovani radicalizzati di origine marocchina, che vivevano nella cittadina catalana di Ripoll.
Dei 12 della banda, cinque sono stati uccisi a Cambrils, due sono morti nell’esplosione di Alcanar e quattro sono stati arrestati. Dei cinque terroristi uccisi a Cambrils tre sono stati identificati: oltre al 17enne Moussa Oubakir, Mohamed Hychami, 24 anni, e Said Aallaa, 18. Tutti di origini marocchine e tutti residenti a Ripoll, nel nord della regione. E marocchino era il ventiduenne Younes Abouyaaqoub, l’autista del furgone bianco che ha seminato la morte sulla Rambla, (in seguito ucciso ferito m in un’operazione della polizia catalana a Subirats). Ed anche la maggior parte dei terroristi che hanno colpito Bruxelles, e prima ancora Parigi, sono originari del Marocco, in particolare della zona del Rif, la regione settentrionale del Paese che va dal Capo Spartel e Tangeri fino al confine con l’Algeria.
“Esistono molte ragioni che hanno spinto i giovani marocchini ad unirsi alla jihad – spiega Mohammad Masbah, sociologo del Carnegie Middle East Center di Rabat– e tra queste certamente ci sono emarginazione sociale, povertà, mancanza di prospettive per il futuro. La scappatoia al disagio e alla disperazione, per molti, era a pochi km di distanza, in un Paese come la Siria che non richiedeva alcun visto”. “Le statistiche mostrano che oltre i tre quarti dei terroristi marocchini in Siria e di quelli che si sono poi trasferiti in Europa provenivano da zone emarginate – rimarca ancora Masbah – il che conferma il fatto che non ci sono solo motivazioni ideologiche ma che queste si sono radicate su sentimenti di frustrazione e rabbia generalizzata”.
Dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington, il Marocco ha smantellato almeno 168 cellule jihadiste e nell’ultimo anno ha accresciuto la cooperazione con Ue e americani, concentrandosi sull’enclave di Ceuta, adoperata dai jihadisti come testa di ponte per infiltrarsi sulle coste settentrionali del Mediterraneo, Ogni giorno, ha riferito una fonte della polizia spagnola, citata dal Pais, da Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in Marocco, arrivano centinaia di segnalazioni di possibili attentati. Le due piccole cittadine, prese d’assalto dai migranti, frequentate da ambulanti locali e abitate in parte da marocchini, sono diventate una specie di crocevia del terrorismo maghrebino.
Nei dodici chilometri quadrati di Melilla, sono ‘monitorati’ circa 600 sospetti e agiscono ben cinque servizi segreti differenti: i tre organismi della sicurezza spagnoli (la Cni, la polizia nazionale e la Guardia civile), l’intelligence marocchina e il Mossad israeliano. Anche a Ceuta la situazione è simile, con persone che ogni giorno, formalmente per motivi di lavoro, attraversano il confine. Fra il 2012 e il 2014 almeno 11 jihadisti partono da Ceuta, altre decine da Melilla.
L’alta percentuale di soggetti provenienti da Ceuta e Melilla si conferma nelle statistiche, elaborate dal Combating terrorism center, che riguardano i 178 jihadisti arrestati in Spagna fra il 2013 e il 2016: il 32%proviene dalle due enclave, il 20% da Barcellona e dintorni. In questo campione di islamisti la componente maghrebina è elevata: il 42,7 % hanno nazionalità marocchina, contro il 41,5 % di spagnoli, la metà sono immigrati di seconda generazione, il 40% di prima generazione, il 10 convertiti. Con l’avvio dell’estate è stata ripristinata l’operazione “Marhaba” che vede l’arrivo di milioni di marocchini dall’Europa attraverso la frontiera di Tangeri.
Questa operazione consiste nella realizzazione di una serie di misure di sicurezza in tutti i posti di frontiera del Regno.
Le istruzioni che sono state date ai funzionari del ministero dell’Interno e doganale di stanza sui vari valichi di frontiera, è quella di rafforzare le misure di sicurezza atte a contrastare ogni tentativo di infiltrazione di terroristi e di introduzione nel paese di armi, esplosivi o prodotti utilizzati nella loro fabbricazione. In particolare, i controlli dei passeggeri e dei bagagli saranno rafforzati. Si potrà ricorrere all’uso di mezzi sofisticati, soprattutto il porto di Tangeri-Med, presso il valico di frontiera di Bab Ceuta e l’aeroporto Mohammed V di Casablanca.
Le autorità di Rabat sono preoccupate per un nuovo flusso di migrati illegali provenienti dall’Africa sub-sahariana che scelgono il Marocco come punto di transito verso l’Europa. Un recente rapporto dell’intelligence spagnola ha rivelato che l’immigrazione illegale dalla costa mediterranea del Marocco abbia raggiunto proporzioni allarmanti.
Questo perché la Libia è diventata un passaggio “ad alto rischio” per i migrati africani. Recentemente, il quotidiano marocchino “Akhbar Al Yaoum” riferisce che i servizi segreti spagnoli, sulla base delle statistiche compilate per i primi sei mesi di quest’anno, sostengono che la costa mediterranea del Marocco sia diventata sempre più “popolare” fra i migranti diretti in Europa. Si parla di uno spostamento del flusso che dal Niger solitamente andava verso la Libia e che ora passa per l’Algeria e per il Marocco. Le forze di sicurezza marocchine hanno fermato dal 2002 al marzo 2017 più di 370 mila tentativi di immigrazione clandestina verso l’Europa. Allo stesso modo sono 3.094 le reti di trafficanti di esseri umani che sono state smantellate da quell’anno. Ma è una lotta infinita. Perché, come al Qaeda e l’Isis, anche gli schiavisti del Terzo Millennio hanno imparato a reinventarsi. In modus operandi. E in rotte da solcare. Rotte mortali. Almeno 1.130 migranti e rifugiati sono morti quest’anno a largo delle coste libiche (1.549 in tutto il Mediterraneo) in un disperato tentativo di raggiungere le coste europee. A riferirlo è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Secondo i dati dell’’Oim, tra il primo gennaio e il 9 settembre 2018 sono avvenuti 1.549 decessi, lungo le cinque principali rotte marittime che attraversano il mar Mediterraneo, verso Italia, Grecia, Malta, Cipro e Spagna.