Non c’è pace senza diritti sociali
Popoli giovani “affamati” di futuro. Un futuro che non è solo assenza di guerra. Il monito di Papa Francesco, le riflessioni di Michelle Bachelet. L’Africa come opportunità e non come minaccia: la scommessa di Exco 2019.
Per i popoli giovani, “affamati” di futuro, la pace non può essere una condizione immateriale, che non interviene ed incide nel vissuto materiale quotidiano, che non dà risposte concrete a bisogni vitali che non possono essere “ridotti” ai pur fondamentali diritti umani. Ciò che un mondo vicino a noi – il Sud del Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Africa – racconta è che, oggi più che mai, i diritti sociali sono parte essenziale, fondante, di una visione più ampia dei “diritti umani”.
Pace è lavoro, è una distribuzione più equa di ricchezze e risorse, è uno sviluppo sostenibile, è lotta contro le crescenti diseguaglianze tra i Nord e i Sud del pianeta, è pari opportunità di genere, è istruzione. Pace è tutto questo o, semplicemente, non è. I diritti non si mangiano.
Un Paese non si stabilizza, non cresce, non si consolida, se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro a popoli giovani. “Le disuguaglianze ed il mancato rispetto di tutti i diritti umani hanno il potere di erodere tutti e tre i pilastri dell’Onu: pace e sicurezza, sviluppo e diritti umani”, così Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, presentando alla 40ª sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu a Ginevra la relazione sul lavoro svolto nel 2018.
“Le disuguaglianze – ha osservato la ex presidente del Cile – minacciano la nostra opportunità di realizzare uno sviluppo sostenibile ed inclusivo. Le disuguaglianze suscitano rimostranze e disordini; alimentano odio, violenza e minacce alla pace; e costringono le persone a lasciare le loro case ed i loro Paesi. Le disuguaglianze minano il progresso sociale e la stabilità economica e politica”. “Ma i diritti umani costruiscono la speranza”, ha ammonito Bachelet: “Legano l’umanità, insieme con principi condivisi ed un futuro migliore, in netto contrasto con le forze divisive e distruttive della repressione, dello sfruttamento, del capro espiatorio, della discriminazione e delle disuguaglianze”.
Secondo l’Alto Commissario, “alcuni paesi – non sempre i più ricchi, per reddito o risorse – scelgono di adottare politiche basate su principi più efficaci, fondati sull’intera gamma dei diritti umani. Prendendo provvedimenti per far avanzare i diritti civili, culturali, economici, politici e sociali come rafforzamento reciproco, possono contare sulla costruzione di una solida base per lo sviluppo sostenibile e l’armonia sociale”.
La pace è giustizia sociale. “Dico una cosa che sembra offendere ma è la verità: nell’incosciente collettivo c’è un pensiero brutto. L’Africa va sfruttata. Sono considerati schiavi e questo deve cambiare con dei piani di investimenti, di educazione, per far crescere, perché il popolo africano ha tante ricchezze culturali ed ha un’intelligenza grande. Sono bambini intelligentissimi che possono con una buona educazione andare oltre. Questa sarà la strada a mezzo termine. Ma devono mettersi d’accordo i governi e andare avanti con questa emergenza”: così Papa Francesco, sprone continuo nel cercare di costruire non solo una cultura alta della solidarietà, ma portatore di una visione lungimirante, propositiva, dell’assunto: “aiutiamoli a casa loro”. Una “casa” che brucia. E che viene abbandonata perché invivibile. Sono numeri impressionanti quelli contenuti nel rapporto annuale dell’Unhcr, pubblicato alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato, il 21 giugno 2018: sono 68,5 milioni le persone che alla fine del 2017 si trovavano lontane dalle proprie case, perché costrette ad abbandonarle. Di loro, 25,4 milioni sono scappate a conflitti e persecuzioni: 2,9 milioni in più del 2016, “l’aumento più grande che l’Unhcr abbia mai registrato in un solo anno”.
Di questi, poco più di un quinto sono palestinesi affidati all’Unrwa. E, stando a quanto anticipato ad Oltremare da fonti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati impegnate nell’elaborazione del rapporto 2019, la situazione è ulteriormente peggiorata e l’esercito dei fuggitivi da guerre, persecuzioni etniche, disastri ambientali, povertà assoluta, sta raggiungendo i 70 milioni, e forse li supererà entro l’anno in corso.
Altro dato significativo: lo stravolgimento dell’eco sistema – con effetto-carestia, squilibri climatici etc. – ed il peggioramento ulteriore delle condizioni di vita in diverse aree del pianeta, diventano le cause prime, più ancora dei conflitti armati, dell’incremento dei “fuggitivi”. Dalla “guerra giusta” alla “pace giusta”.
La pace non è assenza di guerra, né può ridursi, come spesso e su vari quadranti mondiali è stato, alla ratifica dei rapporti di forza imposti sul campo di battaglia. La pace non è, o non dovrebbe essere, sinonimo di resa. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. Io credo che la pace sia instabile laddove agli esseri umani sia proibito esprimersi, sia negato il diritto di parlare liberamente o venerare il Dio prescelto, sia impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze.
Promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un’azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell’indignazione. Ma so anche che le sanzioni, che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo.
Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta…”. E’ una parte del discorso che l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, pronunciò ad Oslo, il 10 dicembre 2009, in occasione del ritiro del Premio Nobel per la Pace. Non è questa l’occasione per valutare quanto, nei suoi due mandati presidenziali, Obama sia stato fedele a questa importante riflessione.
Fatto è che quelli che sono stati percepiti come i due grandi leader globali dei tempi attuali, Obama e papa Francesco, si siano cimentati con il tema epocale della pace giusta. Che per essere tale deve intervenire e incidere sulle cause che sono alla base del proliferare di crisi, conflitti regionali, disastri ambientali, crescita delle diseguaglianze tra i pochi che posseggono ricchezza e i Sud del mondo che ne sono espropriati.
Dire immigrazione significa, infatti, accendere un faro sulla disuguale distribuzione della ricchezza. In effetti, ben il 95% delle strutture produttive è posseduto da un sesto della popolazione mondiale. Con un reddito pro capite di circa venti volte inferiore a quello dell’Ue, l’Africa subsahariana dispone solo del 2,1% della ricchezza mondiale.
Resta ignorata, peraltro, la crisi alimentare gravissima che sta colpendo diversi paesi Africani, in particolare il Sud Sudan, il bacino del Lago Ciad ed il Corno d’Africa, tra le maggiori zone di provenienza di profughi e rifugiati nel nostro paese. Qui, a causa degli effetti combinati di una grave siccità e dei conflitti che insanguinano alcuni paesi (Sud Sudan e Somalia in particolare), quasi 30 milioni di persone sono sull’orlo della fame. Hanno perso le loro fonti di sostentamento principali (bestiame ed agricoltura) perché non c’erano più acqua e cibo sufficienti, hanno attraversato a piedi intere regioni aride sfuggendo da Boko Haram o Al Shebaab o semplicemente cercando acqua per le proprie mandrie. Sono affamati, disidratati e senza prospettive, i bambini muoiono di diarrea; sono 2 milioni quelli colpiti dalla fame, che rischiano di morire se non si interviene immediatamente. Ed è impressionante notare come vi sia una stretta correlazione tra diversi dei Paesi “saccheggiati” e quelli da cui provengono la maggioranza dei migranti sbarcati in questi giorni in Italia: Congo, Nigeria, Ghana, Mali, Gambia, Niger, Guinea, Sudan, Senegal, Bangladesh, Camerun. Dal Corno d’Africa fuggono eritrei, etiopi, somali e sudanesi.
Ed è dunque una scelta strategica quella di fare dell’Africa il centro di Exco 2019. L’Africa come opportunità e non come minaccia. Continente nel quale l’Italia è il primo Paese europeo per investimenti, con un totale di 20 progetti per complessivi 4 miliardi di dollari nel solo 2016, e a livello mondiale si posiziona al quarto posto dopo Cina, Emirati Arabi Uniti e Marocco. Investire in Africa, nel Mediterraneo, è anche un modo incisivo, il più incisivo in prospettiva, per frenare esodi di massa e garantire la nostra sicurezza. Perché, a Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine.
E’ il caso della Tunisia. Sono i migranti tunisini ad imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.
La grande maggioranza del popolo tunisino – dice ad Oltremare Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia.
Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati, non offrendo loro il miraggio del “Califfato, ma un salario per combattere per la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e, più in generale, con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento, redditizio sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”.
Sicurezza è sviluppo, investimenti che diano speranza, cioè lavoro, a popoli giovani. Vanno in questa direzione i finanziamenti per 5,5 miliardi di euro che saranno assegnati alla Tunisia da otto fondi internazionali. Le istituzioni coinvolte nell’iniziativa sono l’Agenzia francese per lo sviluppo, la Banca africana per lo sviluppo, la Banca europea per gli investimenti, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca tedesca per lo sviluppo, la Società finanziaria internazionale.
I fondi, ha spiegato il commissario europeo per la Politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento Johannes Hahn, serviranno a sostenere il Paese nel corso del processo di costruzione democratica, e risponde, in termini concreti e vincolanti, all’appello del presidente tunisino Beji Caid Essebsi ai partner della Tunisia affinché appoggiassero la giovane democrazia tunisina in un passaggio di estrema delicatezza. Un discorso che investe l’insieme del Nord Africa.
Sviluppo, benessere, lavoro sono le “armi” più incisive per contrastare il proselitismo jihadista tra i giovani attratti dalle organizzazioni dell’islam radicale armato anche, e per certi versi soprattutto, dal “salario”. Vale per la Tunisia, come per il Marocco, come per la Somalia, la Nigeria…Uno sviluppo che rispetta e amplia i diritti sociali, che crea lavoro, è un investimento sul futuro. Un futuro di pace. Quella vera. In questo, Exco 2019, è una “conferenza di pace”.