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Proteggete Fatimi che vive in riva al Lago Ciad

La crisi è ambientale, con l’avanzata del deserto, e sociale, con tre milioni di persone in fuga da Boko Haram e altri gruppi armati. Ma c’è un impegno di protezione europeo. Reportage

Tra ottobre e novembre, con la piena, il Lago Ciad proverà a fermare l’avanzata del deserto almeno un po’. Lawal Djoulu Sangay, capo tradizionale dei villaggi della comunità kanembu oltre Baga Sola, tiene tra le mani squame di carpa soppesando pro e contro dei cicli stagionali. “Esiste il rischio di un aumento delle incursioni” dice: “Piroghe e canoe potrebbero arrivare veloci dalle basi dei gruppi armati sulle isole”.

Il Lago, che bagna non solo il Ciad ma anche il Niger, la Nigeria e il Camerun, è il cuore geografico del Sahel e l’epicentro di una crisi ambientale cominciata il secolo scorso: siccità prolungate hanno ridotto la portata dell’immissario Chari e così la superficie del bacino si è ridotta addirittura del 90% da 25mila a circa 2.500 chilometri quadrati. Un disastro ecologico paragonabile forse solo a quello del Lago Aral, svuotato ai tempi dell’Unione Sovietica dai canali che dovevano portare acqua alle piantagioni di cotone. Con il ritirarsi dell’acqua, sulle rive saheliane si è acuita la lotta per le risorse: zone pescose, pascoli, mandrie.

Pesca nel Lago Ciad

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Il nome che tutti fanno è Boko Haram. In lingua hausa vuol dire “l’istruzione occidentale è peccato”: si chiama così la rete islamista nata sul versante nigeriano del Lago, divenuta nota nel mondo nel 2014 per il rapimento delle ragazze di Chibok e per la campagna per la loro liberazione #BringBackOurGirls. Negli ultimi tempi ci sono state divisioni e lotte intestine e ha acquisito notorietà una nuova sigla, Iswap nell’acronimo inglese, che sta per Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico. Il risultato però non cambia: tante persone sono state costrette a lasciare le loro case e le loro terre, tre milioni secondo stime delle Nazioni Unite.

Le due crisi, quella ambientale e quella umanitaria, con addirittura 11 milioni in condizioni di bisogno, sono interconnesse. Lo si vede anche nei villaggi oltre Baga Sola, sulla riva ciadiana, dove spianate e avvallamenti si sono riempiti di polvere. “Il mio desiderio è poter un giorno spingere al largo barche a motore” ci confida Mohamad Agi Aboukar, 57 anni, due mogli e 15 figli. È difficile però dire se e quando sarà prudente allontanarsi dalla riva: buona parte del Lago resta “zone rouge”, area a rischio, inaccessibile ai pescatori perché sotto il controllo dei gruppi armati.

Bacino del Lago Ciad

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Altre storie le incontriamo a Forkoulom, un campo per persone sfollate dove opera anche l’organizzazione italiana Intersos, impegnata in servizi di protezione sociale con un progetto sostenuto dall’Unione Europea. È qui che vive Fatimi Moussa, 29 anni, il volto incorniciato dall’hijab, il velo della tradizione islamica. Abitava sull’altra sponda del Lago, dal lato della Nigeria, in un villaggio di pescatori dato alle fiamme da Boko Haram. Oggi non sa dire quanti anni avessero quei due bambini, in lacrime mentre bruciava la casa dove vivevano con i genitori. Ricorda solo che era di venerdì mattina. È come se da quel giorno per lei il tempo si fosse fermato o avesse cominciato ad avanzare improvviso e poi lento, non più su una linea retta; come seguisse il percorso a piedi al quale è stata costretta dopo l’assalto al suo villaggio.

“Ahmed e Aisha sono i figli dei miei vicini di casa” spiega Fatimi, la schiena poggiata sui rami e le stoffe annodate che tengono su la capanna, a terra la stuoia condivisa con gli ospiti. “Erano rimasti soli, sotto shock: troppo piccoli per capire, piangevano”. Lei li ha presi per mano, seguendo chi ha avuto la fortuna di poter fuggire. “Mio marito non l’ho visto mai più” continua Fatimi. “Ora il mio desiderio più grande è ritrovare i loro genitori naturali e riunire la famiglia”.

Di loro, come di tanti altri minori soli costretti a lasciare le rive del Lago, si stanno occupando Intersos e organizzazioni umanitarie come il Comitato internazionale della Croce Rossa. Bisogna capire se e come sia possibile identificare le persone e permettere i ricongiungimenti familiari.

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Fatimi sogna di tornare nel suo villaggio d’origine, anche se si rende conto che la vita di prima non c’è più: i suoi familiari sono stati uccisi e comunque sarebbe troppo rischioso. Sa anche di non voler rinunciare a ciò che ha trovato a Forkoulom: quella sicurezza e quella protezione che le erano mancate per ben tre volte anche in Ciad, dopo essere fuggita dalla Nigeria. Nel campo è arrivata a piedi, dopo nuovi assalti di gruppi armati, insieme con Ahmed e la sorella. “A scuola riesco bene perché mi piace” confida lui, che avrà otto anni: “Qui sono stato accolto”.

È accaduto lo stesso ad altri bambini negli “spazi sicuri” nati sia a Forkoulom che in altri campi nella regione grazie all’intervento di Intersos. “Ognuno di loro per noi è solo un bambino, non importa da dove arrivi o quale sia la sua comunità di origine” sottolinea Amédée Mbuyi Kalenga, un coordinatore locale dell’ong. “Negli incontri quotidiani animatori volontari insegnano il rispetto, il dialogo e la ‘competence de vie’, che vuol dire capacità pratiche ma anche desiderio di partecipare insieme, in comunità e in pace”.

Biografia
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
www.vincenzogiardina.org
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