Se un articolo del New York Times vale mezzo milione di aiuti umanitari
I media influenzano le decisioni dei Paesi donatori. Con immagini che pesano nelle campagne elettorali. Lo evidenzia un nuovo studio. Insieme al bisogno di “illuminare le periferie”.
L’esplosione al porto di Beirut. Con i video del fumo nero, il boato e i palazzi sventrati sul fronte del mare. O il terremoto in Nepal, le case accartocciate sul fianco della montagna, sullo sfondo l’Everest incappucciato di neve. Immagini drammatiche e allo stesso tempo spettacolari. Impressionanti e immediate. Al punto da generare subito un flusso di informazione che dilaga su giornali, social network e tv. Generando una pressione sui rappresentanti politici, dai deputati ai ministri, chiamati a loro volta a chiedere, rivendicare, dimostrare. Le sollecitazioni raggiungono anche le agenzie per la cooperazione allo sviluppo, pure coinvolte dall’esigenza di provare di aver compreso l’urgenza e di aver dato una risposta concreta in termini di aiuto. È la dinamica rivelata dallo studio The Politics of Humanitarian Journalism, pubblicato sulla rivista Journalism Studies e presentato alcune settimane fa sul sito di divulgazione scientifica The Conversation. Gli autori sono esperti di comunicazione con base in Gran Bretagna: Martin Scott, dell’Università di East Anglia, Kate Wright, dell’Università di Edimburgo, e Mel Bunce, dell’Università di Londra. Per studiare il rapporto tra copertura mediatica e aiuti di emergenza hanno intervistato 30 decisori politici e dirigenti di enti pubblici di cooperazione di 16 tra i principali Paesi donatori al mondo. Ciò che emerge è la differenza tra crisi con un impatto anche visivo immediato, come nel caso del Libano o del Nepal, e altre più complesse o comunque difficili da raccontare, come il conflitto armato in corso nello Yemen. Nella ricerca sono passate in rassegna le risposte agli appelli per gli aiuti umanitari lanciati dalle Nazioni Unite: nel caso dell’Iraq e del Libano le donazioni garantirono rispettivamente il 92 e l’84 per cento dei fondi, un dato relativamente alto, mentre in quelli del Venezuela e del Sud Sudan la risposta internazionale coprì appena il 24 e il 10 per cento. “Avevamo un budget di emergenza ridotto” ricorda uno dei dirigenti intervistati. “Di norma non avremmo allocato nulla per il Libano, che figura come un Paese a reddito medio, ma l’elevato livello di interesse da parte dei media ha fatto sì che ci muovessimo per garantire un contributo significativo”.
Un fattore decisivo sarebbero le pressioni che, in conseguenza della copertura giornalistica, arrivano dalla società civile e dai rappresentanti politici, in particolare quelli eletti, più sensibili alle richieste dell’opinione pubblica. “Se improvvisamente accade qualcosa che diventa una notizia prioritaria per i media si crea un meccanismo per il quale tutti ti chiedono di quella cosa” ricorda un altro responsabile citato nello
studio. “Ne risulta una pressione perché tu possa dire: ‘Ecco come noi abbiamo risposto’”.
Non tutti i media varrebbero però allo stesso modo. Per i politici eletti hanno un peso maggiore le emittenti televisive o i giornali nazionali, immaginati come capaci di influenzare l’opinione pubblica più di quanto non facciano testate di respiro globale come Bbc o Cnn o gli stessi social network. Nello studio si parla allora di “effetto emergenza news nazionali”. Per dire: negli Stati Uniti è stato calcolato che un articolo del quotidiano New York Times su un disastro naturale sposti aiuti per mezzo milione di dollari.
Diverso il discorso per gli stanziamenti su base annuale. Secondo i ricercatori, in tempi più lunghi le scelte dei ministeri degli Esteri o delle agenzie di cooperazione risentono meno dell’influenza dei media e della pressione dell’opinione pubblica. Nelle decisioni sui budget annuali, più consistenti da un punto di vista finanziario rispetto agli interventi in emergenza, troverebbero più spazio considerazioni di carattere strategico o comunque meno condizionate dalle pagine dei giornali o da pressioni elettoralistiche. Secondo lo studio, però, anche in questi casi il sistema dei media continua a esercitare un’influenza. Alcuni dirigenti vedrebbero nella carenza di notizie su alcune crisi il segno della necessità di dedicare più attenzione e risorse proprio a queste situazioni. Si innescherebbe allora una dinamica denominata dai ricercatori “effetto crisi dimenticate”, associata di volta in volta a scenari come il Myanmar o il Sahel. In questi casi il rischio può essere una sorta di sbilanciamento al contrario, con la possibilità di allocazioni che non rispondano alla reale gravità della crisi.
Nella ricerca si forniscono anche consigli per scongiurare condizionamenti dannosi o percezioni errate. La tesi è che potrebbero aiutare sia una maggiore trasparenza dei criteri di allocazione delle risorse sia un investimento più significativo negli strumenti multilaterali. Tra questi è indicato a titolo di esempio il Fondo centrale dell’Onu per la risposta alle emergenze, capace di flessibilità e meno soggetto alle pressioni politiche ed elettoralistiche nazionali. Con Oltremare ne parla Anna Meli, responsabile comunicazione per Cospe, ong italiana promotrice del progetto Illuminare le periferie insieme con Fnsi, Usigrai, Osservatorio di Pavia, Rai per il sociale e Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics). I giorni sono quelli del lutto per la scomparsa di Sergio Lepri, direttore dell’agenzia di stampa Ansa dal 1962 al 1990, convinto che il “vero fascino della professione giornalistica” sia “contribuire alla crescita civile della società”. Secondo Meli, “il potere della comunicazione è pervasivo nella misura in cui contribuisce a dare forma a tutte le possibili sfere dell’agire sociale (in-formare), determinando non solo opinioni ma anche posizioni, scelte e azioni”. La responsabile di Cospe continua: “La ricerca The Politics of Humanitarian Journalism conferma il ruolo che l’informazione sugli esteri e le crisi dimenticate svolge nelle scelte di allocazione degli aiuti ma anche quanto da tempo cerchiamo di denunciare con il rapporto Illuminare le periferie, gli esteri dimenticati dai tg italiani, ovvero la necessità di costruire una più continua e forte attenzione alla comprensione pubblica dei contesti internazionali dove la cooperazione opera”. Non solo. Secondo Meli, “illuminare in modo meno parziale e discontinuo alcune aree del mondo e alcuni temi contribuirebbe non solo ad arginare quella frattura mediatica tra dimensione sempre più globale dei fenomeni sociali, economici e politici e l’informazione diffusa dai tg italiani, ma anche a fornire all’opinione pubblica strumenti di lettura delle cause di conflitti, delle carestie e delle crisi così come dell’allocazione degli aiuti, in una sempre più necessaria opera di trasparenza”.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Rai, Radio Vaticana e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
www.vincenzogiardina.org