Viaggio in Afghanistan lungo la via della pace
La conferenza dei donatori ha confermato gli impegni internazionali. Da verificare anno per anno, puntando sulla cooperazione civile. Prospettive da Kabul
Tornanti a 3.500 metri di altezza, su e giù dai valichi di Onai e Hajigak. Centotrentasei chilometri da percorrere in tre ore e mezza, invece di 13 come accadeva prima. Da Kabul fino a meraviglie del mondo, i Buddha di Bamiyan, sventrati dalla guerra e ora al centro di un impegno che è insieme di cultura e di pace. Un’opera di “rivitalizzazione”, com’è definita tecnicamente, per restituire all’umanità lo splendore di una delle due statue, alta 38 metri: risalente al III secolo dopo Cristo, è una testimonianza dell’arte gandharica, incontro tra mondi ellenistici e orientali lungo quella che sarebbe diventata la Via della seta.
La strada che collega Kabul a Bamiyan corre lungo l’asse est-ovest dell’Afghanistan. È stata inaugurata nel 2016 grazie a uno stanziamento italiano del valore di quasi cento milioni di euro. “Ed è proprio lo sviluppo delle infrastrutture il cuore della presenza qui della nostra cooperazione” spiega a Oltremare Giovanni Grandi, in videocollegamento da Kabul. “Questo settore, in un’ottica di interconnessione stradale e ferroviaria, vale circa l’80 per cento dell’impegno civile italiano”. Storicamente, prima che fosse travolto da 40 anni di crisi e conflitti, con l’intervento sovietico, l’offensiva americana e il suo corollario di contrapposizioni intestine, da una parte il governo di Kabul e dall’altra i guerriglieri talebani, l’Afghanistan è stato luogo d’incontro. Per ragioni geografiche e strategiche, lungo la Via della seta, tra l’India e il Pakistan a est e l’Iran a ovest, dal Turkmenistan a nord fino alla Cina più a oriente.
Secondo Grandi, titolare della sede di Kabul dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), “i Paesi vicini hanno un ruolo da giocare sul piano degli scambi commerciali e su quello della pace, che è il passaggio chiave”. L’impegno, italiano e internazionale, è imponente. Lo ha confermato la Conferenza dei donatori dell’Afghanistan che si è tenuta a fine novembre a Ginevra. Al termine dei lavori è stata ufficializzata una volontà di investimenti per 12 miliardi e mezzo di dollari nel quadriennio 2021-2024. L’Europa e l’Italia hanno confermato il loro impegno e, nonostante a livello globale ci sia stata una lieve flessione rispetto ai circa 15 miliardi del periodo 2017-2020, è stato un sostanziale successo. “Stime internazionali indicano che dal punto di vista numerico, considerando i dati attualizzati, l’assistenza per la ricostruzione dell’Afghanistan ha superato in valore il Piano Marshall lanciato dagli americani per l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale” annota Grandi. Convinto che proprio “una certa stanchezza” dei donatori preoccupasse gli afgani, tenendo conto che il bilancio del loro governo dipende dagli aiuti stranieri per oltre il 50 per cento.
E però a Ginevra si è deciso di andare avanti. Partendo dal presupposto che investire nell’Afghanistan si può e si deve, purché le condizioni siano favorevoli. Il nodo è la pace. I donatori, l’Italia tra loro, hanno scelto di vincolare la prosecuzione dell’impegno ai risultati ottenuti a Kabul sul piano della stabilità e della “self-reliance”, vale a dire l’autonomia, la capacità di stare in piedi sulle proprie gambe.
Il contesto è quello di un negoziato di pace tutto da scrivere. All’intesa sottoscritta nel febbraio scorso dagli Stati Uniti con i talebani è seguito l’annuncio di un progressivo ritiro delle truppe americane. L’orizzonte è maggio, mentre in Qatar partono i colloqui tra l’esecutivo del presidente Ashaf Gani e i guerriglieri. “Si è appena conclusa una fase preliminare, relativa alle procedure del negoziato” dice Grandi: “E’ un fatto positivo e incoraggiante, anche se bisogna ancora definire l’agenda ed entrare nel merito delle questioni”. Vista da Kabul, la sensazione è quella di trovarsi sul crinale di una montagna: c’è il rischio di cadere ma anche la possibilità di arrivare alla meta, che per gli afgani vorrebbe dire la fine di decenni di guerra, sofferenza e lutti. Al raggiungimento di questo traguardo è legata la prospettiva dell’aiuto internazionale. Il tema sono i diritti umani e i servizi di base, dalla scuola alla sanità, settori nei quali storicamente la Cooperazione italiana è stata presente.
C’è poi il comparto infrastrutture, con “tre grandi iniziative per l’interconnessione regionale del Paese”, sottolinea Grandi. Lo strumento sono i crediti di aiuto, la direttrice incrocia la Ring Road, la “strada nazionale numero uno”, immaginata per la prima volta oltre 2.000 anni fa dagli imperatori Maurya: è un grande raccordo circolare, che collega Kabul a Mazar-e- Sharif, Herat a Kandahar. L’impegno è creare raggi di interconnessione, anche a livello ferroviario, come sta facendo l’Italia a partire dalla provincia di Herat, guardando anche all’Iran. “Un primo tratto dell’opera è stato consegnato giorni fa da Teheran, un secondo lo finanzieremo noi con un credito di aiuto” dice Grandi: “La linea taglierà il Paese lungo l’asse centrale, da ovest a est”.
L’assunto è che tutto si tenga insieme. Partnership, persone, pace. Anche perché, mentre in Qatar si negozia, arriva l’inverno. E mentre cade la neve, stima il World Food Programme, Nobel per la pace 2020, tra poveri e sfollati in tanti rischiano di soffrire la fame: oltre 16 milioni di persone, il 42 per cento della popolazione, quattro milioni e mezzo in più rispetto al periodo precedente la pandemia di Covid-19.