Battere la guerra e i suoi effetti, coltivando pane e pace
Gli effetti dei cambiamenti climatici e dei conflitti come quello in Ucraina stanno intensificando l’insicurezza alimentare in tutta l’Africa subsahariana. Dai giovani possono arrivare le soluzioni più innovative e che allo stesso tempo richiamano i valori del partenariato
Gli effetti dei cambiamenti climatici stanno intensificando l’insicurezza alimentare in tutta l’Africa subsahariana. La carenza di cibo e i prezzi elevati sono stati anche un effetto a cascata prodotto dalla guerra russa in Ucraina e dall’inflazione che ne è derivata. Un fenomeno che si è visto dappertutto ma che ha avuto i suoi strascichi più pesanti lì dove minori erano i mezzi per resistere. A sottolineare questa tendenza sono diverse istituzioni internazionali e c’è un recente studio del Fondo monetario internazionale che evidenzia come un terzo delle siccità mondiali si registra nelle regioni subsahariane e in particolare nel Corno d’Africa.
Prima della guerra, Russia e Ucraina erano tra i primi cinque esportatori mondiali di orzo, girasole e mais e rappresentavano circa un terzo delle esportazioni globali di grano. La Nigeria, quarto importatore mondiale di grano, effettuava un quarto dei suoi acquisti da Russia e Ucraina, e da questi due Paesi, Camerun, Tanzania, Uganda e Sudan si procuravano oltre il 40% delle loro importazioni. La situazione adesso è in piena evoluzione, assolutamente dipendente dagli eventi bellici e dagli accordi precari che regolano il commercio dei cereali. E condizionata da prezzi che si sono gonfiati, rendendo ancor più complesso il tema della sicurezza alimentare, soprattutto nel continente africano, anche se basta andare in un qualunque supermercato italiano per avere un’idea di come i prezzi siano vertiginosamente aumentati.
Ma non c’è solo il conflitto in Ucraina. Secondo uno studio dell’Africa Center for Strategic Studies – un think tank con sede a Washington – i conflitti rimangono il motore dominante della spirale della crisi alimentare in Africa. Più dell’80% dei 137 milioni di africani, un numero da record, che affrontano una grave insicurezza alimentare, si trovano infatti in Paesi interessati da conflitti. Compromettendo la resilienza di famiglie, comunità e nazioni, i conflitti dell’Africa hanno aggravato l’impatto prodotto da shock esterni come pandemia, clima, inflazione e guerra russa in Ucraina sulla sicurezza alimentare del continente. Si stima che il 73% dell’insicurezza alimentare acuta in Africa sia concentrato in otto Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Nigeria, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Niger e Burkina Faso. Tutti Paesi che hanno sperimentato o stanno ancora sperimentando conflitti interni di significativa entità.
Di fronte a queste sfide enormi, quali sono quindi gli strumenti a disposizione? Alcune soluzioni sono emerse all’ultimo Consiglio dei governatori dell’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo. Interessanti soprattutto le esperienze emerse dai relatori più giovani che hanno animato alcuni dei panel in programma.
Per Elizabeth Wathuti, per esempio, anche nelle situazioni più critiche nei Paesi in via di sviluppo, la buona notizia è che c’è una crescente consapevolezza della necessità di dover costruire sistemi alimentari più resilienti. E allo stesso tempo c’è l’idea ormai condivisa che un cambiamento del settore agroalimentare è cruciale per il futuro dell’umanità. Green Climate Fund Youth Champion, kenyana, Wathuti è una delle ispiratrici di quel movimento globale che chiede una trasformazione dell’infrastruttura su cui si regge il nostro modo di vivere e di una svolta decisa verso la sostenibilità. “In Africa – dice a Oltremare – avremo tre miliardi di abitanti in un paio di decenni e supereremo i 4 miliardi entro la fine di questo secolo. Significa che dobbiamo assicurarci che la nostra transizione in termini di sistemi alimentari sia effettivamente equa e giusta e anche inclusiva, perché questo è lo stesso continente che sta già sperimentando insicurezza alimentare esacerbata dalla crisi climatica e dalle continue siccità. E dobbiamo anche assicurarci che l’azione si svolga effettivamente adesso, perché con l’aumento della popolazione ci saranno sempre più persone che avranno bisogno di accedere al cibo e all’acqua”.
Una soluzione equa, giusta e inclusiva è quanto sottolinea anche Dali Nolasco Cruz, giovane leader indigena del popolo Nahua (Messico). “L’80% della biodiversità esistente al mondo è ospitata nei territori indigeni e non è un caso. È il frutto di centinaia di anni di esperienze, di pratiche rispettose della natura che noi siamo pronti a condividere e che il mondo deve imparare a difendere”. Secondo Nolasco Cruz, le comunità indigene possono offrire conoscenze e competenze ma devono finalmente entrare nelle stanze in cui si decide, così da poter essere ascoltate per continuare a difendere l’eredità ricevuta. “Una eredità preziosa, oggi minacciata da land grabbing, sfruttamento dei territori e cambiamenti climatici”.
Difendere questa sapienza antica aprendosi al tempo stesso alle innovazioni, ha sottolineato a sua volta Fatima Amaguar – giovane donna marocchina che ha dato speranze alle donne della comunità di Azizal – è una caratteristica propria dei giovani: “Sono loro che possono guidare il cambiamento, come dimostrano le cooperative che nella nostra comunità non solo hanno creato sviluppo ma hanno anche consentito alle donne di organizzarsi ed essere protagoniste attraverso la coltura dello zafferano”.
Innovazione applicata alla tradizione, tecnologia e partnership, anche con il sostegno della comunità internazionale. Così si possono creare dal basso le basi per un mondo più resiliente, più sicuro e più motivato a coltivare la pace.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.