La democrazia africana al bivio imposto da Covid-19 e geopolitica
Colpi di Stato, pronunciamenti militari ma anche prese di posizione lontane dal solco della democrazia hanno rimesso in discussione nell’ultimo anno i progressi fatti dal continente africano.
E’ a un bivio la democrazia in Africa? L’interrogativo, più che figlio di una lenta tendenza, sembra prorompere con violenza come conseguenza di colpi di Stato e prese di posizione forti emerse in diversi Paesi del continente nell’ultimo anno. Mali, Guinea e Sudan sono nazioni che hanno sperimentato negli ultimi dodici mesi più colpi di Stato, tra tentati e riusciti, due a testa Mali e Sudan, uno la Guinea. Ma a questa lista si potrebbe aggiungere il Ciad, dove alla morte violenta di Idriss Deby Itno è seguita la presa di potere del figlio Mahamat. E ci sono poi i casi di Paesi segnati da instabilità politica e insicurezza manifesta.
Secondo Marco Di Liddo, responsabile del desk Africa al Centro Studi Internazionali (Cesi), dopo i passi avanti significativi che a partire dagli anni Novanta hanno visto progredire il continente, oggi stiamo vivendo “l’epoca dell’inverno africano”. La Guinea e il Sudan sono solo gli esempi più recenti di colpi di Stato: ecco perché non si può parlare di casi isolati quanto piuttosto di una tendenza pericolosa. Nella lettura di Di Liddo, tale tendenza si sta verificando in un momento storico che vede Paesi come Russia e Cina affermarsi sempre più a livello economico e politico “creando un corpus di relazioni con il continente africano in cui la discriminante democratica e dei diritti non è più fondamentale”.
Uno spunto, quello sulla Cina, condiviso da Jean-Léonard Touadi; nel corso di una conferenza sul Sudan organizzata dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), Touadi ha parlato di “deterioramento democratico” e arretramento della democrazia che sono determinati sì da fattori interni alle nazioni ma anche da “dinamiche geopolitiche e geostrategiche”.
Ad aggravare la situazione c’è poi la pandemia, con una congiuntura globale caratterizzata da tensioni economiche e incertezza sanitaria, e classi militari che “stabilizzano” forzatamente società diventate bombe ad orologeria.
Un effetto, questo del Covid, che già nel marzo del 2020 (ovvero pochi mesi dopo l’inizio della pandemia) era stato pronosticato da una nota interna del Centro di analisi (Caps) del ministero degli Affari esteri francese. In quel documento, datato 24 marzo 2020 e dal titolo “L’Effetto pangolino: la tempesta in arrivo in Africa?”, si metteva in dubbio la capacità di diversi Paesi africani di resistere agli effetti della pandemia. “L’onda d’urto […] potrebbe essere un colpo troppo forte per gli apparati statali”, si legge nel rapporto, e negli scenari delineati venivano citate possibili rivolte causate da un numero troppo elevato di morti, dove a farne le spese sarebbero stati i governi di alcuni Stati più fragili di altri, in particolare nel Sahel e nell’Africa centrale. O rivolte innescate dal venir meno di esponenti politici di alto livello (quindi anche capi di Stato) proprio a causa del virus. O ancora rivolte legate ai rischi economici determinati anche dalle misure di contenimento.
A distanza di quasi due anni, una parte almeno di quelle previsioni si è in effetti concretizzata. Se la storia del Covid e delle sue conseguenze deve essere ancora scritta, ciò su cui concordano diversi osservatori è l’effettiva esistenza di un arretramento democratico del continente africano. D’altro canto, questa nuova situazione non deve sorprendere, sostiene Giovanni Carbone, docente di scienze politiche all’Università degli Studi di Milano e responsabile del programma Africa dell’Ispi. “Tale deterioramento va più che altro letto come una fase di allineamento a una tendenza globale”, dice Carbone, secondo il quale la discriminante risiede in ciò che accadrà a livello internazionale e, ancora una volta, dall’azione di Paesi come Cina e Russia. Pur sottolineando come negli ultimi anni sul fronte della tenuta democratica il continente abbia dato buona prova di sé, Carbone vede ora un’Africa che si sta allineando alla tendenza globale tramite forme diverse, la più preoccupante delle quali è quella del ritorno dei colpi di Stato. “Nei decenni passati eravamo abituati a vederne uno o più all’anno, poi c’era stato un arretramento di questo fenomeno. Ora qualcuno ci ha provato, ce l’ha fatta e altri hanno seguito l’esempio”.
Insomma, per dirla con Laurent Duarte, segretario esecutivo del movimento internazionale Tournons la page (Voltiamo pagina), si tratta di un “fenomeno pericoloso” che vede i grandi attori internazionali “superati dagli eventi, intrappolati”. La pericolosità cui fa riferimento Duarte è soprattutto legata al concetto di golpe che, come nei casi di Guinea e Mali, possono anche godere di appoggio popolare “perché appaiono come uniche soluzioni possibili”. Così come rischi, secondo Duarte, possono essere determinati da atteggiamenti ambigui di importanti attori internazionali, che paiono valutare lo stesso evento con parametri diversi: “Non ha molto senso dire che il colpo di Stato in Ciad è un buon golpe e quello in Mali non lo è, ovvero che il colonnello Assimi Goita non ha legittimità mentre ne ha il figlio di Idriss Deby Itno dopo trent’anni al potere” sostiene Duarte parlando con InfoAfrica. Si tratta pur sempre, in altre parole, di un colpo alla democrazia. Secondo Duarte, le organizzazioni regionali così come l’Unione Africana sono “completamente ingessate” dinanzi ai colpi di Stato. “D’altronde i regimi golpisti non danno molta importanza a sanzioni come l’esclusione dall’Unione Africana o dall’Ecowas, che peraltro non chiudono la porta alla diplomazia. E quanto alle sanzioni economiche – conclude – possono non essere determinanti, visto che gli Stati africani sono oggi in grado di andare a negoziare con altri attori”.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.