Dall’Afghanistan all’Iran, dalla Tunisia alla Liberia: speranza e coraggio hanno il volto di donna
Sanno coniugare idealità e concretezza, lottano contro l’oscurantismo fondamentalista e società patriarcali, rivendicando diritti negati, primo fra tutti all’istruzione. Malala, Shirin, Tawukkal e le altre: quando la parola sconfigge le armi.
“Nessuna lotta può concludersi vittoriosamente se le donne non vi partecipano a fianco degli uomini. Al mondo ci sono due poteri: quello della spada e quello della penna. Ma in realtà ce n’è un terzo, più forte di entrambi, ed è quello delle donne”. Non è un pensiero astratto. È una riflessione vissuta, e non è una metafora, sulla propria pelle. Da sola con una “penna”, simbolo della volontà di essere istruita, partecipe, come ragazza, poco più che bambina. Una penna supportata da una determinazione ferrea, che ha avuto la meglio sulla ferocia dei Talebani.
Le parole e l’esperienza di Malala Yousafzai, oggi ventenne, è la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace, nota per il suo impegno per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto all’istruzione – bandito da un editto dei talebani – delle donne della città di Mingora, nella valle dello Swat. Il 9 ottobre 2012, Malala viene gravemente colpita alla testa da uomini armati saliti a bordo del pullman scolastico su cui lei tornava a casa da scuola. Ricoverata nell’ospedale militare di Peshawar, sopravvisse all’attentato dopo la rimozione chirurgica dei proiettili.
Ihsanullah Ihsan, portavoce dei Talebani pakistani, rivendicò la responsabilità dell’attentato, sostenendo che la ragazza “è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità”, minacciando che, qualora sopravvissuta, sarebbe stata nuovamente oggetto di attentati. Il 10 ottobre 2014, Malala è stata insignita del premio Nobel per la pace, assieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi, diventando con i suoi diciassette anni la più giovane vincitrice di un Nobel. La motivazione del Comitato per il Nobel norvegese è stata: “Per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”.
La speranza è donna. Come il coraggio, la determinazione con la quale dall’Afghanistan all’Iran, dallo Yemen alla Tunisia, dalla Liberia alla Palestina, donne, diverse per etnia, fede religiosa, credo politico, età, condizione sociale, sono divenute il simbolo della lotta contro regimi militari, dittature teocratiche, generali-presidenti e signori della guerra travestiti da politici, califfi jihadisti, uniti nel far strame di diritti umani, sociali, civili, col comun denominatore di esercitare nei confronti delle donne una doppia oppressione: politica e di genere. La “Primavera” è stata donna. Come l’”Onda verde” iraniana”.
Non è un caso che il simbolo di quell'”Onda” sia stata una ragazza, freddata con un colpo alla testa in una delle prime manifestazioni anti-regime a Teheran: Neta Agha Soltan. Di lei avemmo modo di parlare con la grande scrittrice egiziana, paladina dei diritti delle donne nel mondo arabo, Nawal el Saadawi: “Ho pianto per Neda – ci raccontò in quell’occasione –. E allo stesso tempo mi sono sentita orgogliosa, come donna, come musulmana. Orgogliosa perché sono le donne il motore di questa rivolta, sonno loro a esprimerne lo spirito più alto. Perché sono le donne a essere ad essere doppiamente vittime di un regime teocratico e sessista come è quello iraniano”. E alla domanda perché le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti, la scrittrice rispose così: “Fin dall’inizio della storia dell’umanità, i governanti. Ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi è diventata una peccatrice. Da lì, sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Eva e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini – non solo quelli che esercitano la loro protervia maschilista in nome di Allah – hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo…Per questo si ha paura delle donne in società che sono, al tempo stesso, patriarcali e teocratiche”.
Un concetto che si ritrova in una bella intervista concessa a Gian Antonio Stella da Shirin Ebadi. Avvocata iraniana per i diritti umani, insignita del Nobel per la pace nel 2003 per le sue battaglie legali in difesa dei diritti umani e in particolare delle donne vittime degli abusi della Sharia. Gli inquisitori di Giovanna d’Arco la processavano in quanto fanatici ma anche in quanto maschi: che peso ha il maschilismo nell’Islam?, le chiede Stella. “Questo è un nodo importante: tutte le religioni sono, da sempre, più o meno ostili alle donne. Perché sono state interpretate da maschi. La prima peccatrice è stata Eva e tutte le donne devono essere punite per questo. È arrivato il momento che anche le donne possano interpretare la loro religione. Magari fra qualche decennio ci spiegheranno che forse fu Adamo ad offrire il frutto proibito ad Eva”, è la risposta dei Ebadi. Decine di migliaia di donne hanno fatto sentire la propria voce nelle proteste in Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen. Tra esse, una giovane attivista yemenita, insignita nel 2011 del premio Nobel per la pace: Tawakkul Karman.
“La rivoluzione – rimarcò Karman agli albori delle proteste di Sana’a- aspira a rovesciare i regimi, ma è riuscita anche a ribaltare quelle tradizioni arcaiche che per troppo tempo ci hanno imposto che le donne stessero in casa, fuori dalla vita pubblica”. Le donne hanno pagato un alto tributo di sangue nelle rivolte che hanno scandito l’”89 arabo2. In maggioranza giovani in prima fila, orgogliose, determinate: come lo era Sally Zahran, 23 anni, uccisa dalla polizia egiziana duranti le grandi proteste del primo “Venerdì di collera” in Egitto, il 28 gennaio 2011. Donne coraggiose, impegnate nella difesa dei diritti umani e civili. E’ il caso di Radhia Nasraoui, avvocato, femminista, presidente dell’Associazione per la lotta alla tortura in Tunisia. Un passato tra clandestinità, prigione e sciopero della fame, è stata la prima, il 17 dicembre del 2010, a guidare la sollevazione popolare a Sidi Bouzid.
“La rivoluzione dei gelsomini” ha anche il volto di Lina Ben Mhenni, blogger, oggi trentaquattrenne. Per comprendere al meglio il senso della sua esperienza, riportiamo un passo dell’intervista da lei concessa, nel sesto anniversario della “rivolution jasmine” a Valentina Barresi per la Voce di New York: Il nome del blog con il quale il mondo ti ha conosciuta è A Tunisian girl, titolo che esprime chiaramente l’intenzione di scrivere del tuo Paese da un punto di vista femminile, una forte dichiarazione d’identità come donna e come tunisina. Ma cosa vuol dire in questi giorni essere una ragazza tunisina? Questa la risposta: “È vero che sto cercando di usare il mio blog per dare voce a persone che non hanno voce. Credo fermamente che le donne tunisine abbiano salvato il Paese da un bagno di sangue e dalla guerra civile e che lo salveranno dal terrorismo e dall’estremismo, hanno preso parte alla rivoluzione e prendono parte alla costruzione del Paese.
Le donne tunisine sono presenti in tutti i settori della vita attiva e, nonostante i diversi tentativi di limitare i loro diritti, hanno resistito e sono riuscite a preservare i loro vecchi diritti e a ottenerne di nuovi. Ma non posso parlare per tutte loro. Ovviamente, c’è una differenza tra quelle che vivono nella capitale e quelle che vivono in aree remote e che non sperimentano le stesse condizioni. Ma, consentimi di dire, che le donne tunisine sono delle grandi guerriere”. Guerriere che “imbracciano” penna, che mettono in circolazione idee ed esperienze attraverso i social media. Guerriere di libertà. Come lo sono Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, insignite nel 2011 del Premio Nobel per la pace assieme a Tawakkul Karman. “Non possiamo raggiungere la democrazia e la pace duratura nel mondo, se le donne non otterranno le stesse opportunità degli uomini di influenzare gli sviluppi a tutti i livelli della società”, è la motivazione del riconoscimento.
Ellen Johnson Sirleaf è stato il primo presidente africano donna eletto democraticamente. arrivata al potere nel 2005, è impegnata nella ricostruzione del suo paese devastato da 14 anni di guerra civile, che ha causato la morte di 250.000 persone. Di formazione economista, con un Master in public administration conseguito ad Harvard nel 1971, Johnson-Sirleaf parte in esilio a Nairobi, in Kenya, nel 1980, dopo il rovesciamento dell’allora presidente William Tolbert. Torna in patria solo nel 1985, per partecipare alle elezioni del senato della Liberia, ma quando accusa pubblicamente il regime militare, è condannata a dieci anni di prigione. Rilasciata dopo poco tempo, si trasferisce a Washington e torna in Liberia solo nel 1997 nel ruolo di economista, lavorando per la Banca mondiale e per la Citibank in Africa. Corre per la prima volta alle presidenziali contro Charles Taylor nel 1997, ma raggiunge solo il 10 per cento dei voti, contro il 75 per cento di Taylor, che poi l’accusa di tradimento. Dopo la sua vittoria alle elezioni del 2005, Johnson-Sirleaf pronuncia uno storico discorso alle camere riunite del Congresso degli Stati Uniti, chiedendo il supporto americano per aiutare il suo paese a “divenire un faro splendente, un esempio per l’Africa e per il mondo di cosa può ottenere l’amore per la libertà”.
Leymah Gbowee, avvocato, è una militante pacifista e nonviolenta che ha contribuito a mettere fine alle guerre civili che hanno dilaniato il suo paese. Minuta, di carnagione chiara (per questo è soprannominata “rossa”), la Gbowee ha da poco pubblicato la sua autobiografia, “Mighty be our powers: how sisterhood, prayer, and sex changed a nation at war”. Tra le iniziative più note dell’attivista, di etnia kpellè, nota anche come la “guerriera della pace”, va ricordato “lo sciopero del sesso”, un’iniziativa che costrinse il regime di Charles Taylor ad ammetterla al tavolo delle trattative per la pace. Quelle ricordate sono solo alcune delle donne che hanno provato, in parte riuscendoci, a cambiare il corso della Storia, e non solo nei rispettivi paesi. Hanno interpretato e dato voce al dolore e alla speranza, all’oppressione subita e al riscatto rivendicato propri di milioni di donne. Molte di loro hanno incontrato sul cammino dell’emancipazione Ong italiane. Quel percorso di libertà ha potuto consolidarsi anche grazie ai finanziamenti mirati dell’Aiuto allo sviluppo italiano, nel campo dell’istruzione, della salute, della formazione al lavoro, dell’accesso al credito necessario per sviluppare l’imprenditorialità femminile. Un incontro fecondo. Del quale andare fieri.