Marocco, la rivolta è rosa. Tunisia, la crescita è donna
Due Paesi del Nord Africa, storie opposte ma che hanno due donne come simbolo di riscatto: Hajar Raissouni e Rajaa Ben Lacheb.
Marocco, la rivolta è “rosa”. E ha il volto e la storia di Hajar Raissouni. “Un colpo devastante ai diritti delle donne in Marocco”. Così Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord, ha commentato la notizia della condanna a un anno di carcere di Hajar Raissouni, giornalista del quotidiano indipendente Akhbar al-Youm, per aver abortito. “Hajar, il suo fidanzato e il personale medico coinvolto non avrebbero mai dovuto essere arrestati. E invece lo sono stati e per di più Raissouni è stata pubblicamente diffamata, violata nella sua privacy e condannata per un’accusa ingiusta. Le autorità marocchine dovrebbero revocare la condanna e ordinare il suo rilascio immediato e incondizionato, così come quello di tutte le altre persone coinvolte nel caso”, ha aggiunto Morayef. “In base al diritto internazionale le donne hanno il diritto di pendere le loro decisioni circa la loro vita sessuale e riproduttiva. Criminalizzare l’aborto è una forma di discriminazione nei loro confronti. Chiediamo alle autorità del Marocco di abolire tutte le leggi che violano i diritti delle donne, comprese quelle che considerano reati l’aborto e le relazioni extra-matrimoniali”, ha proseguito Morayef.
Hajar Raissouni era stata fermata il 31 agosto insieme al fidanzato Amin Rifaat, a un medico e a due suoi assistenti, all’uscita di uno studio medico della capitale Rabat. La donna e il suo fidanzato sono stati condannati a un anno di carcere, il medico sospettato di aver praticato l’aborto a due anni di carcere e a due anni di divieto di esercitare la professione e i due assistenti, rispettivamente, a un anno e a otto mesi di carcere. Il Movimento alternativo per le libertà individuali, ha dato vita, lo scorso 16 settembre, a una manifestazione per denunciare la violenza di genere e sessuale degli esami ginecologici subiti da Hajar Raissouni in seguito all’arresto. Gli attivisti marocchini si riferiscono all’esame a cui la donna è stata sottoposta a un controllo medico contro la sua volontà, e che ha certificato l’aborto, nonché anche un aborto precedente, diagnosi però smentite dal medico della difesa. L’analisi subita da Hajar, scrivono dal Movimento, prevede un esame manuale della vagina, e, senza consenso, “equivale a uno stupro” e a una “tortura”.
I manifestanti hanno scandito cori in favore delle libertà individuali, contro la criminalizzazione dei rapporti tra adulti consenzienti e in solidarietà con Raissouni, che scrive per il quotidiano Akhbar Al-Youm. In una lettera inviata il 4 settembre al suo quotidiano, Hajar Raissouni aveva riferito di essere stata interrogata sui suoi scritti di tenore politico, su uno dei suoi colleghi e sui suoi familiari, tra cui Ahmed Raissouni, noto teologo islamista ed ex presidente del Movimento per l’unicità e la riforma, uno dei più popolari movimenti religiosi del Marocco. “Noi, cittadine marocchine, dichiariamo di essere fuori legge”. Comincia così un manifesto di solidarietà, pubblicato da diversi quotidiani locali e dal francese Le Monde. In un batter d’occhio l’hanno sottoscritto 470 cittadini marocchini (tra uomini e donne) e oggi ha raggiunto oltre cinquemila adesioni da persone di tutti ceti sociali: casalinghe, studentesse, professoresse, funzionari di alto livello, professioniste. “Persino donne conservatrici che indossano il velo, pur dichiarando di essere contrarie all’aborto e alle relazioni extra-coniugali, hanno espresso solidarietà, perché non accettano l’intromissione nella vita privata altrui”, ha sottolineato la scrittrice Sonia Terrab che assieme a Laila Slassi, consigliere giuridico a Casablanca e militante femminista, ha redatto il testo dell’appello. Il loro appello richiama il “Manifesto delle 343” donne che nel 1971 su Le Nouvel Observateur dichiararono di aver abortito, contravvenendo la legge francese di allora; in tal modo contribuirono alla depenalizzazione dell’aborto, stabilita due anni più tardi dalla legge Veil.
Com’è possibile penalizzare le relazioni sessuali fuori dal matrimonio in un paese in cui l’età media del primo rapporto – in crescita drammatica – si aggira sui 29 anni? – rimarca il documento-denuncia –. La repressione non fa che incoraggiare l’ipocrisia, alimenta le interruzioni di gravidanza clandestine e ostacola l’informazione sulla sessualità e la contraccezione. Ma il regime del re Mohammed VI, che si finge liberale in tema di costumi, la utilizza per destabilizzare i suoi oppositori. È forse un caso se Hajar Raissouni, verosimilmente nel mirino della polizia e seguita fino allo studio del suo medico, è la nipote di due intellettuali ostili al potere, uno islamista e l’altro esponente della sinistra? E se come giornalista ha apertamente difeso i movimenti sociali marocchini e lavora per un giornale che denuncia regolarmente gli abusi di potere? “Il coraggioso appello dei cittadini marocchini “fuorilegge” – sottolinea l’editoriale di Le Monde – interviene tempestivamente per esigere la fine di questa “cultura della menzogna” e la riforma del codice che punisce l’aborto e le relazioni fuori dal matrimonio. Bisogna renderlo noto e sostenerlo. Hajar Raissouni deve ritrovare la libertà, i procedimenti giudiziari contro di lei devono essere sospesi. È tempo che il Marocco applichi alle libertà individuali i principi di modernizzazione e liberalismo che invoca nell’ambito delle infrastrutture e dello sviluppo economico” In Marocco, nel 2018, 14.503 persone sono state portate in tribunale con l’accusa di aver intrattenuto relazioni extraconiugali e sono stati effettuati tra i seicento e gli ottocento aborti illegali al giorno. Storie di brutalità, di giovani donne stuprate e uccise, raccontate da Letteradonna.
L’hanno torturata, poi violentata e lasciata morire in mezzo alla strada, nella medina di Rabat. Un caso di barbarie filmato e diffuso via WhatsApp lascia sotto choc la società civile che si ritrova a seguire un altro processo, a poca distanza dalla sentenza di pena di morte per gli assassini delle due turiste scandinave uccise e decapitate a Imlil, alle pendici del monte Toubkal. Una sequenza di violenze che colpisce le donne e che porta la società civile a chiedere le dimissioni del ministro della Solidarietà, della donna e della famiglia, Bassima Hakkaoui. La petizione è arrivata sul tavolo del capo di governo. L’ultimo terribile caso è quello di Hanane, 34 anni, di Rabat, brutalmente violentata, torturata e lasciata morire in un vicolo della medina di Rabat, nel quartiere della mellah, la zona ebraica. I fatti risalgono a giugno, ma il video raccapricciante delle torture inflitte alla donna è stato diffuso in Rete in questi ultimi giorni (la donna è morta l’11 giugno dopo gravi complicazioni per le ferite subite durante lo stupro). Nel video compare l’aguzzino, un cinquantenne che stando a quanto detto dalla madre della vittima lei conosceva, e che ora rischia la pena di morte. È accusato di omicidio volontario oltre che di violenza e tortura ed è stato assicurato alla giustizia, insieme ad altri otto complici, implicati per reati che vanno dall’omesso soccorso alla diffusione di immagini che riprendono delitti, all’attentato al pudore con violenza e all’uso di psicotropi e sostanze alcoliche. Una storia simile a quella di Khadija, la ragazza di Casablanca, violentata e torturata con l’incisione di tatuaggi e cicatrici su tutto il corpo, o a quella di Zineb, la 23enne sequestrata da una gang di periferia e violentata su un bus di linea nel 2017. In quest’ultimo mese, inoltre, un bambino di undici anni è stato rapito e ucciso a Meknes. Il caso di Hanane, secondo i dati delle associazioni e ong, sarebbe solo la punta di un iceberg, perché sono almeno quattordicimila le donne che subiscono violenza e sporgono denuncia. La ministra Bassima Hakkaoui, eletta nel 2012, è l’unica donna con ruolo da ministro nel parlamento marocchino. Non ha mai commentato pubblicamente nessuno di questi gravissimi omicidi. La legge contro la violenza verso le donne, inquadrata tra gli articoli della legge 101-13, è entrata in vigore nel settembre 2018.
Donne contro, con la loro determinazione e con una “trasgressione” che mette in crisi una società patriarcale e maschilista. “Sii donna, fai quel che ti pare”, è la risposta-slogan con cui alcune marocchine hanno reagito alla campagna contro il bikini lanciata nel Nord Africa nel 2015 e ripresa l’anno scorso in Marocco. A Rabat al grido di “Sii uomo” (traduzione dell’hashtag “Koun-rajul”) s’invitano gli uomini a non far uscire di casa mogli, fidanzate o figlie con abiti succinti o in bikini in spiaggia. Per la prima volta, però, al tormentone-divieto, diventato virale grazie ai social, alcune attiviste hanno reagito duramente. Usando la stessa arma: Facebook. La campagna maschilista si è presto diffusa in tutto il Marocco attraverso una pagina Facebook filo-islamista. A sostegno del divieto di bikini sono riportate le parole del Profeta, citando il Corano: “Ogni donna che tolga i suoi abiti fuori dalla casa del marito, in verità è come togliesse il velo tra se stessa e Dio”. In pochi giorni più di quattromila utenti hanno messo “mi piace” alla campagna anti-bikini e in quasi quattordicimila l’hanno condivisa. Non solo, però. In poche ore, infatti, sono sbocciate pagine Facebook di dissenso e condanna al divieto, con foto degli anni Sessanta e Settanta, quando sulle spiagge di Casablanca il costume a due pezzi era di moda come a Saint Tropez e si vedevano donne in minigonna come a Londra. Alcune attiviste hanno commentato: “Solo un imbecille può aderire a una campagna del genere”. E ancora, c’è chi parla di “aberrazione”, di “un passo indietro di oltre 100 anni”, o “la donna è un essere umano, chi sei tu per decidere cosa debba indossare?”
Dalla rivolta “rosa” in Marocco, alla scommessa tunisina. Investire in uno sviluppo al femminile. Una cooperativa di donne del sud della Tunisia, protagoniste di un progetto finanziato dall’Aics, ha ricevuto il primo premio nazionale per la migliore presentazione dei prodotti del territorio alla fiera della “femme rurale” organizzata a Tunisi dal 13 al 17 ottobre. E’ il primo, grande risultato ottenuto dal marchio Tataoui, nato lo scorso aprile come brand identificativo dei prodotti realizzati da alcune cooperative del governatorato di Tataouine. Si tratta, nello specifico, di cooperative agricole composte principalmente da donne e giovani, create e sostenute grazie all’iniziativa “Ter-re: dal territorio al reddito” realizzata dall’organizzazione italiana ARCS con il finanziamento della Cooperazione italiana. Il lancio del marchio e la partecipazione alle principali fiere nazionali rientrano tra le attività previste per valorizzare le conoscenze tradizionali e i prodotti locali col fine di migliorare la condizione di vita delle donne e dei giovani che abitano una delle zone più svantaggiate del Paese.
Il riconoscimento è stato assegnato al gruppo locale per lo sviluppo agricolo (Gda) del villaggio di Douiret, che ha dovuto competere con altre settanta cooperative agricole presenti alla fiera, con i rispettivi prodotti. Al termine della manifestazione il primo premio è stato quindi assegnato al Gda di Douiret e ai suoi prodotti: tisane, cosmetici a base di argilla locale e piante aromatiche. In rappresentanza di questo Gda è stata la giovane Esma Douiri a ritirare la targa e il diploma del premio dalle mani del Primo ministro tunisino, Youssef Chahed e del Ministro dell’Agricoltura, Samir Taieb. Anche i rappresentanti di Tataouine all’Assemblea Nazionale, il parlamento tunisino, hanno voluto menzionare in aula i risultati raggiunti da questo gruppo di giovani donne. La crescita si coniuga al femminile in Tunisia. E’ ha il volto di Rajaa Ben Lacheb, animatrice della rete delle donne in un territorio al confine con la Libia, area geografica a grande rischio di emigrazione. La rete si è organizzata in associazione e gestisce autonomamente la filiera delle vongole e la trasformazione dei prodotti della pesca. Le donne raccoglitrici di vongole, organizzandosi in associazione, stanno tentando con successo di abbattere i costi dovuti all’intermediazione dei commercianti e a ricavare introiti maggiori grazie alla vendita diretta della loro produzione. L’associazione è riuscita anche valorizzare la recente presenza del granchio blu che da minaccia è diventata ora ulteriore risorsa economica. La “nuova Tunisia” punta sulla parità di genere. E la Cooperazione italiana scommette su questo.