Niger, da Khadija a Mehret: storie di donne, di diritti violati e di voglia di vita
In fuga dalle violenze di Boko Haram, in marcia lungo le rotte per la Libia o semplicemente in cerca di un futuro migliore. Storie di donne che sono nate in Niger o che in Niger si sono ritrovate per costruire insieme nuovi percorsi.
Khadija ha un’età indefinita. Potrebbe avere 20 come 40 anni, ha figli, è analfabeta. Il caso ha voluto che, dopo essere nata nella zona del lago Ciad, insieme alla sua comunità si sia spostata sempre più a ovest, in direzione di Diffa, verso il Niger. Nomadi, in fuga dalla siccità e dalle violenze. Come quelle di Boko Haram, una realtà qui molto vicina.
Le incursioni del gruppo armato nigeriano – le prime risalgono al febbraio del 2015 – si sono fatte sempre più frequenti negli ultimi anni e, nonostante l’intervento di contingenti militari di varie bandiere, la situazione sembra essere peggiorata. Con un effetto immediato sul numero degli sfollari interni. Secondo i più recenti dati del governo di Niamey (risalenti allo scorso ottobre), gli sfollati nella regione di Diffa sono oltre 250.000.
“Khadija vive in uno dei campi allestiti per gli sfollati e mi è rimasta in mente perché insieme ad altre donne stava cercando di convincere la figlia a seguire uno dei nostri corsi scolastici” ricorda Floriana Bucca, che per l’Ong Coopi segue un progetto finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo proprio a Diffa. Il progetto riguarda l’assistenza a rifugiati e sfollati interni nella regione del lago Ciad. “Lo scopo – aggiunge Floriana Bucca, siciliana di Milazzo che sta seguendo l’iniziativa dall’inizio – è di estendere l’accesso all’educazione formale e non formale nei villaggi di accoglienza e nelle comunità sfollate”.
Accanto a questo, tante sono poi le iniziative collaterali, che vanno dall’inserimento professionale di giovani svantaggiati ad attività didattiche particolari come i giardini scolastici, dove i bambini apprendono i segreti dell’orto ma anche le buone pratiche nutrizionali.
Le donne sono però tra le immagini che in qualche modo risaltano di più agli occhi. “Lavorare con loro è pazzesco – spiega Floriana – perché scopri realtà molto distanti dalla nostra e al tempo stesso una voglia di fare che è davvero gratificante per il nostro lavoro. Le donne rispetto agli uomini rispondono meglio al nostro lavoro, le vediamo più coinvolte, più attente ai possibili effetti futuri di un’attività. Come Khadija che, a un certo punto, ha fatto un passo avanti per il bene della figlia, sfidando in qualche modo uno status quo, cercando di garantire un futuro migliore alla persona che più ama”.
Di storie, come quella di Khadija, ce ne sono tante in Niger, e non soltanto nelle zone rurali. Al mercato di Wadata, a Niamey, c’è un’associazione sostenuta da Aminata Mori, presidente del Reseau Nationale des Femmes Artisanes du Niger, che ha avviato un’attività di formazione professionale pensata per le giovani mamme, donne giovanissime, a volte abbandonate, che riescono a imparare una professione e creare reddito. “Qui imparano a cucire, a creare oggetti, a lavorare insieme per costruire insieme un futuro” racconta la stessa Aminata mentre alle sue spalle giovani mani lavorano stoffe che poi la cooperativa di cui fanno parte venderà.
E se per le nigerine lavorare in casa può essere facile, più difficoltà incontrano quelle donne che in Niger sono capitate quasi per caso. Volti sconosciuti, giovani eppure segnati dalla fatica. Come Mehret, nome di fantasia di una ragazza eritrea ospite del Centro di salute mentale per richiedenti asilo, una struttura nuova di cui Coopi si occupa insieme alle Case di passaggio, anch’esse pensate per assistere gli ultimi tra gli ultimi: bambini, donne, uomini che hanno lasciato i rispettivi Paesi macinando chilometri prima di raggiungere la Libia, dove poi sono caduti nelle reti di trafficanti e sfruttatori di ogni tipo. “I nostri – dice Marzia Vigliaroni, capo missione in Niger di Coopi – sono servizi che prima non esistevano. Attraverso i corridoi umanitari che si sono creati con la Libia e tramite Unchr, il governo nigerino ha consentito di avere sul proprio territorio un certo numero di richiedenti asilo. Si è creata così questa possibilità di presa in carico che, grazie alle case di passaggio, offre un sostegno medico e una grande parte di sostegno psico-sociale, insieme ad attività da svolgere all’interno e all’esterno del centro, sportive e ricreative, che permettono una maggiore difesa dei diritti di queste persone”. Anche Mehret ora fa parte di questa realtà, dopo che per lunghi mesi in Libia è rimasta prigioniera di sfruttatori. Mesi che sembravano non voler finire e che ora Mehret cerca di superare con l’aiuto degli psicologi e degli assistenti del Centro. Mehret, come altre migliaia di persone, aveva affrontato con i mezzi a disposizione il lungo tragitto che dal Corno d’Africa porta in Libia, l’ultima tappa verso l’Europa. Una strada difficile e pericolosa, soprattutto se si è donna.