Ranieri Guerra, dall’Africa all’Oms: “Ci salverà il multilateralismo”
Dopo il Covid-19 bisognerà ripensare il mondo. Che dovrà restare aperto, garantendo il diritto alle cure. Con Oltremare ne parla il direttore generale aggiunto dall’Oms. Intervista
“Dobbiamo imparare la lezione, investendo in ciò che conta” avverte Ranieri Guerra, una vita per la cooperazione, dal lavoro negli ospedali di Kahama e Ikonda, in Tanzania con i Medici con l’Africa, alla docenza all’Università nazionale somala. Il segno è sempre quello del diritto alle cure: un impegno continuato negli anni in Italia, con il ministero degli Esteri e poi con quello della Sanità, come direttore generale della Prevenzione.
In queste settimane lo abbiamo ascoltato anche in diretta tv, alle conferenze stampa delle 18, negli aggiornamenti quotidiani sul nuovo coronavirus al fianco dei responsabili della Protezione civile. Di Covid-19 e di ciò che bisogna fare adesso, dopo aver “imparato la lezione”, parla adesso con Oltremare. Lo fa allargando lo sguardo, da direttore generale aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’incarico che ha assunto nel 2017 al fianco dell’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. Sottolineando la necessità di una svolta: “Oggi – dice – è necessario ripensare le relazioni tra gli Stati sovrani e il mondo dell’Onu e della multilateralità”.
Direttore, cominciamo dalla fine. La pandemia è stata, in qualche caso, spunto per citazioni dotte. C’è chi ha ricordato la lezione dei filosofi tedeschi, da Kant a Fichte a Hegel, provando a immaginare il mondo che sarà: vinceranno i nazionalismi o questo virus che attraversa i confini finirà per favorire una globalizzazione più solidale?
“Il Covid-19, è chiaro, i confini non li rispetta. Si diffonde con una velocità e una capacità di contagio e poi di restare uniche nella panoramica degli ultimi 30 anni. Ha colpito tutti. L’Italia inizialmente veniva additata come Paese untore all’interno dell’Unione Europea: rappresentava invece il futuro degli altri Stati membri, dove è accaduto lo stesso a cinque, sette o dieci giorni di distanza. È evidente che quando c’è una capacità di infezione così elevata e una mobilità umana come quella del mondo contemporaneo non c’è alcuna alternativa alla concertazione. Chiudere le frontiere non porta a niente. L’Italia aveva sospeso i voli diretti dalla Cina e oggi, grazie allo studio dei genotipi, abbiamo la prova che le vie d’ingresso del virus sono state due: non dalla Cina ma da altri Stati membri dell’Ue. Poi c’è la capacità degli Stati di prepararsi: il punto dolente di tutta la questione. La preparazione, a livello individuale o come raggruppamenti internazionali – è anche il caso dell’Ue – non c’è stata. Sono stati tutti presi di sorpresa, nonostante ci fossero i presupposti per capire che il virus sarebbe arrivato. Credo che i livelli di preparazione non siano stati all’altezza un po’ dappertutto. All’inizio colleghi nordamericani mi dicevano: ‘Siamo preparatissimi, identificheremo il caso indice non appena si manifesterà negli Usa’. Abbiamo visto ciò che è successo: non mi pare che ci sia stata una risposta adeguata. Rafforzare la prevenzione e la medicina generale, con le capacità di diagnosi ma anche di protezione verso le strutture di secondo livello come gli ospedali: bisogna puntare su questo. Poi ci sono i Paesi più fragili. In Congo, dove non si è ancora usciti dall’epidemia di ebola, pensare che si riesca a mantenere alto il grado di protezione è illusorio. Semplicemente non ci sono le condizioni”.
C’è chi, anche sulla stampa italiana, ha scritto che la pandemia ha aggravato una crisi degli organismi sovranazionali. È d’accordo? C’è una crisi – come indicherebbe la decisione degli Stati Uniti di Donald Trump di sospendere il sostegno all’Oms, denunciando uno sbilanciamento in favore della Cina – o al contrario questa è un’occasione di rilancio?
“Credo che oggi sia necessario ripensare le relazioni tra gli Stati sovrani e il mondo dell’Onu e della multilateralità. L’Oms non è un super-organismo o un super-governo internazionale che impone regole o restrizioni, bensì un ente gestito da Stati membri. Sia l’assemblea che l’executive board sono fatti dagli Stati e obbediscono a indicazioni del consiglio di amministrazione, che è composto dagli Stati. L’Oms è però una struttura in grado, nei confronti degli Stati, di esercitare una moral suasion. Può gestire e aggregare le informazioni, suonando l’allarme quando deve essere suonato e garantendo quel minimo livello di concertazione che è determinato da linee guida e raccomandazioni che pur non essendo cogenti rappresentano un determinante fondamentale per lo sviluppo di politiche coerenti e basate su evidenze piuttosto che inventate. Pensi ad esempio alla regione europea dell’Oms. Oggi l’ufficio di Copenaghen è l’unica struttura che garantisce continuità e collaborazione tra Regno Unito, Ue, Stati balcanici di prossima accessione, Turchia, Russia e repubbliche centroasiatiche. È la sola struttura che riesca a far circolare le informazioni e a convocare riunioni di esperti sulla gestione del virus. Rende dunque possibile la partecipazione di Stati che altrimenti non potrebbero dialogare perché non esiste un forum nel quale prendere decisioni condivise”.
Quali sono gli interventi, in un’ottica di diritto alle cure, in particolare nei Paesi poveri, sui quali bisognerà investire di più? E quali sono le sinergie necessarie tra l’Oms e i programmi nazionali, evidentemente anche italiani, di cooperazione allo sviluppo?
“Le cooperazioni bilaterali tra Stati hanno un ruolo chiave, operativo, di assistenza diretta che evidentemente l’Organizzazione può solo rafforzare e dirigere verso priorità ovvie ed evidenti ma che possono non essere completamente valutate da una collaborazione che è spesso prima politica che tecnica. Ora siamo in emergenza e puntiamo verso strutture di sistema che devono essere valorizzate al massimo perché saranno in prima linea. L’Africa ha una demografia e una distribuzione della popolazione sul territorio differenti dalle nostre ma temo fortemente l’ingresso del virus nelle megalopoli degradate, che potrebbero diventare serbatoio di contagio. Un intervento adesso per mettere in sicurezza e rafforzare è urgente. Serve peraltro un volume finanziario con risorse tecniche e professionale importante. C’è però un rumore di fondo, che va considerato e ascoltato: bisogna investire nelle strutture del sistema. È il motivo fondamentale anche della cooperazione italiana di qualche anno fa, che poi si è andato un po’ diluendo a fronte degli investimenti nazionali sui propri sistemi. Ma qui servono risorse e capacità professionali che non si possono improvvisare ai tempi di una pandemia. Dobbiamo imparare la lezione, continuando l’investimento in quello che conta in questi Paesi: bene puntare sulle strutture produttive e sulle rese economiche elevate, purché non si dimentichino i sistemi sanitari, la coesione sociale e la formazione professionale delle persone. Siamo ancora in grado di rimediare a errori ma per farlo bisogna rivedere le strategie mettendo a disposizione volumi finanziari e assistenza tecnica mirata da parte di professionisti in grado di lavorare assieme ai colleghi di altri Paesi”.
Un fronte decisivo, ai tempi del Covid-19, è quello dei vaccini…
Premetto che rispetto al nuovo coronavirus esiste un piano globale che viene discusso in comitati di emergenza convocati dall’Oms settimanalmente, dove sono presenti praticamente tutti. Alla prima riunione sulla definizione delle priorità di ricerca e sviluppo nel blueprint emanato dall’Organizzazione un paio di anni fa erano collegate 600 persone da tutto il mondo. C’è una piattaforma di solidarietà sia per trial clinici controllati in giro per mondo sia per le attività di ricerca e sviluppo nell’ambito dei vaccini, non solo delle terapie, sia per la definizione di validità di certa diagnostica. Sono tutti percorsi potentemente condivisi. Pensi solo ai genotipi virali: ne sono stati pubblicati oltre 10mila, ora al servizio dei ricercatori in ogni parte del mondo. L’Oms è un contenitore nel quale gli esperti di sanità pubblica possono concertare e condividere le migliori strategie con tutti i loro colleghi in ambito globale. Il compito fondamentale dell’Organizzazione è questo. La missione è chiara e viene rispettata”.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Vaticana, Radio In Blu e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
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