Rossella Miccio (Emergency): così dopo Ebola salviamo vite a Bergamo
L’ong gestisce la terapia intensiva del nuovo ospedale anti-Covid. Facendo tesoro dei protocolli messi a punto anni fa in Sierra Leone. Oggi riferimento in Italia e nel mondo. Parla la presidente
“Il virus ci ha dimostrato che davvero non esistono confini” scandisce Rossella Miccio, una vita in giro per il mondo, dall’Afghanistan al Sudan. Via Skype, questa volta, risponde però dall’Italia: dal reparto di terapia intensiva gestito da Emergency presso il presidio ospedaliero del Papa Giovanni XXIII alla Fiera di Bergamo. Nella struttura, aperta nei giorni del nuovo coronavirus, operano 40 tra medici, infermieri, Oss, fisioterapisti, tecnici di laboratorio e di radiologia, molti dei quali già in prima fila nella lotta contro Ebola in Africa o al lavoro in Paesi attraversati da conflitti armati.
Miccio, una vita in cooperazione, dal 2000 con Emergency, prima come co-direttrice dei programmi umanitari e poi come presidente, in mezzo la nascita a Khartoum del Centro Salam di cardiochirurgia, ha appena parlato con un paziente di Covid-19. “Mi ha detto: ‘Chi l’avrebbe mai immaginato, Emergency in ospedale a Bergamo’”. Invece è andata proprio così. “E non è affatto strano”, sottolinea in un’intervista con Oltremare: “L’esperienza che abbiamo maturato in tanti anni, in Afghanistan o in Sierra Leone, con i protocolli messi a punto con Ebola e la gestione degli ospedali a 360 gradi, sono stati il punto di partenza per il nostro impegno qui adesso”.
Presidente, aiutare nel mondo allora aiuta? Esiste una cooperazione circolare, che torna indietro e fa bene a tutti? L’impegno contro ebola si è dimostrato utile anche all’Italia…
“È la conferma di un concetto basico ma estremamente importante: nel momento del bisogno, anzitutto sul piano della salute, davanti alle malattie, siamo tutti uguali. Il virus ci ha mostrato che davvero non esistono confini. L’esperienza maturata in tanti anni, dalla Sierra Leone al Sudan e all’Afghanistan, è stata fondamentale in queste settimane. Siamo contenti di aver potuto dare un contributo in Lombardia, una regione davvero molto colpita dall’epidemia. I colleghi di Bergamo ci dicevano che qui una cosa così non la ricordava nessuno. Ha chiuso perfino la trattoria storica vicino alla Fiera dove è stato realizzato questo ospedale: era rimasta aperta anche durante la Seconda guerra mondiale. Essere riusciti a fare un pezzetto di strada insieme con questa comunità e mettere a disposizione ciò che abbiamo imparato in tanti anni di lavoro in sistemi sanitari molto più fragili del nostro, d’altra parte, è stato un impegno importante anche per noi. Il Covid-19 non è uguale a Ebola. E anche la risposta in termini sanitari non è un semplice copia-incolla. Per dare ora una risposta efficace ed efficiente è stato fatto un lavoro di ripensamento e di adattamento delle linee guida e dei protocolli messi a punto anni fa in Sierra Leone”.
Cosa avete ripreso nello specifico di quella esperienza e messo a servizio del sistema sanitario italiano?
“Una delle prime cose che avevano creato tantissimi problemi durante Ebola e poi anche qui in Italia sono state la scarsa sicurezza e protezione degli operatori sanitari. In Sierra Leone eravamo riusciti non solo a gestire due centri specializzati, uno dei quali l’unico in tutta l’Africa occidentale con la terapia intensiva per il trattamento dei malati del virus, ma anche a garantire la funzionalità di un ospedale che fa chirurgia di urgenza e pediatria mentre tutti gli altri chiudevano perché medici e infermieri si ammalavano. Quell’impostazione e quei protocolli di prevenzione e controllo delle infezioni sono stati un punto di partenza per la risposta in Italia, con aggiustamenti ma anche con similitudini importanti. Qui alla Fiera di Bergamo abbiamo introdotto una figura che in Sierra leone si chiama hygienist, il responsabile delle procedure di controllo dell’infezione: non deve essere necessariamente né un medico né un infermiere bensì una persona formata con il compito di verificare che tutti i comportamenti di chi si muove in una struttura dove c’è un virus siano corretti e seguano i protocolli. Questa figura in Italia non esiste ma siamo riusciti lo stesso a trovare volontari, ad esempio tanti dentisti che non stavano lavorando, che hanno deciso di impegnarsi e sono stati coinvolti nella struttura di Bergamo. L’hygienist è uno dei perni dell’esperienza in Sierra Leone. Stiamo puntando su questa figura ancora in Africa occidentale ma anche altrove, ad esempio in Sudan e in Afghanistan, perché anche in quei Paesi è arrivato il Covid-19 e per noi mettere in sicurezza le strutture è stata subito la priorità”.
I protocolli: quali sono i punti chiave? E quali nascono dall’esperienza internazionale?
“Anzitutto è fondamentale la capacità di gestire e organizzare a 360 gradi i flussi ospedalieri. Una delle differenze tra Ebola e Covid-19 è che ebola aveva sintomi-sentinella molto chiari: se hai la febbre è un primo sintomo; ti isolo e ti faccio il test. Con il nuovo coronavirus invece questo non è possibile: tanti pazienti sono positivi pur essendo asintomatici. L’impostazione che abbiamo cercato di dare è considerare tutti nell’ospedale come possibili portatori inconsapevoli del Covid, innalzando le protezioni al livello massimo. Abbiamo aggiunto postazioni per il lavaggio delle mani e fatto sì che i percorsi per il ‘pulito’ e per lo ‘sporco’ non si incrocino mai. Anche attraverso il modo in cui si è vestiti identifichiamo le persone che hanno accesso alla zona gialla, rossa o verde: bisogna evitare quella che viene chiamata cross infection. A Bergamo questo abbiamo potuto farlo perché siamo stati coinvolti già in fase di progettazione della struttura. Abbiamo potuto contribuire anche a disegnarla, tenendo in mente queste regole di base grazie alla collaborazione dei colleghi del Papa Giovanni XXIII e a tutti gli altri. Un po’ alla volta abbiamo costruito percorsi operativi comuni che, a oltre un mese dall’inizio del lavoro in ospedale, consentono di far lavorare tutti in sicurezza”.
Che tipo di riconoscimento avete avuto dalle istituzioni italiane, anche da un punto di vista formale e tecnico?
“La nostra risposta all’emergenza è stata su più livelli. Siamo partiti dalla consegna della spesa a domicilio per chi doveva rimanere in casa, passando poi alla supervisione e alla riorganizzazione di centri di accoglienza per minori stranieri non accompagnati, senza fissa dimora e richiedenti asilo, con il Comune di Milano in particolare, e arrivando infine al livello ospedaliero e alla gestione di una terapia intensiva. Da subito abbiamo cercato di condividere il più possibile quello che avevamo imparato e i principi sulla base dei quali stavamo operando. Abbiamo reso disponibili online i nostri protocolli e le nostre linee guida, che sono state recepite in maniera positiva da tanti ospedali. Il ministero dell’Interno ha anche prodotto una circolare per tutte le prefetture suggerendo di rifarsi ai nostri protocolli per garantire le misure di sicurezza nei centri da loro gestiti. In questi giorni ci stanno chiamando diverse prefetture, ad esempio quella di Napoli, per collaborare con loro e fare supervisione e formazione al personale che gestisce le strutture di accoglienza: bisogna implementare le norme minime per l’isolamento e la convivenza senza rischi. Sul piano internazionale c’è poi il rapporto con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): stiamo collaborando per mettere a punto linee guida a livello globale per la realizzazione dei centri comunitari per l’isolamento e il trattamento dei pazienti di Covid-19. Siamo contenti di aver potuto condividere la nostra esperienza; che poi ci sia stato un riconoscimento non guasta”.
Che significato attribuisce al fatto che a Bergamo, in corsia, ci siano operatori già in prima fila all’estero in aree di crisi o di conflitto?
“Il team è composto da oltre 40 persone, italiane e non. Almeno la metà sono state in Afghanistan, Sierra Leone o Sudan durante l’epidemia di colera. Svolgono il loro lavoro per chiunque ne abbia bisogno, indipendentemente dalla nazionalità, l’etnia o la religione. Ecco, questo virus invisibile ci sta dando una lezione di uguaglianza in dignità e diritti: spero la ricorderemo a lungo. Noi l’abbiamo praticata per 26 anni in giro per il mondo ma anche in Italia, dove lavoravamo dal 2006. Siamo convinti che sia l’unico modo per andare avanti, per poterci considerare davvero una società solidale e garantire a tutti gli stessi diritti, a partire dalla salute e dalla vita”.
Che ruolo ha avuto la Cooperazione italiana a supporto dell’impegno di Emergency, a livello internazionale e in Italia?
“Siamo una organizzazione non governativa riconosciuta, che da anni collabora con la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) e con l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics). Ci sono tanti nostri progetti e attività che hanno ricevuto un importante contributo della Cooperazione, dal Sudan alla Repubblica Centrafricana fino alla stessa Sierra Leone, soprattutto per progetti di ricerca su Ebola dopo l’epidemia. Spero che anche in questa occasione, nonostante tanti occhi siano puntati sull’Italia, la Cooperazione, intesa come sistema, metta in campo risorse fondamentali anche per sostenere Paesi che sono meno fortunati del nostro e che hanno bisogno. È necessario garantire una continuità al lavoro che le ong hanno fatto negli anni in questi Paesi. Mi auguro che l’impegno, anche finanziario, venga garantito. In molti Paesi le ong sono spesso l’unica realtà che fa la differenza tra la vita e la morte: è importante che le istituzioni italiane continuino a sostenerle sia nelle parole che nei fatti”.
Vincenzo Giardina
Nato a Padova, laureato in storia contemporanea, è un giornalista professionista. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire. Tra le sue collaborazioni Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso e Nigrizia. Già redattore dell’agenzia di stampa missionaria Misna, si è specializzato sull’Africa e sui temi dei diritti umani e della lotta contro le disuguaglianze. Scrive su Oltremare, magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e interviene come esperto o inviato su Radio Vaticana, Radio In Blu e altre emittenti. Suoi articoli e reportage sono pubblicati anche da La Stampa e Vanity Fair. Parla più lingue, tra le quali il russo.
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