100 miliardi l’anno per il clima: ecco dove trovarli
100 miliardi l’anno per la lotta al cambiamento climatico a partire dal 2020. Questa è la cifra che secondo le Nazioni Unite dovrebbe essere movimentata per aiutare gli stati più poveri ad affrontare il climate change. Una sfida non semplice. Dove trovare una tale cifra per sostenere la decarbonizzazione e l’adattamento al clima impazzito?
Attualmente la situazione è la seguente: secondo l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, a fine 2016 (i dati più aggiornati disponibili) erano stati allocati circa 43 miliardi di dollari americani. Per le Ong la cifra, più realisticamente, si basa tra i 20 e i 30 miliardi, inclusi i soldi del Green Climate Fund, il fondo istituito dalle Nazioni Unite per il clima. Di cui, lamenta Oxfam International, solo 3-5 miliardi saranno usati per l’adattamento. Cifre apparentemente insufficienti che rischiano di vanificare i successi ottenuti finora con l’accordo di Parigi e riaprire la frattura tra paesi industrializzati e paesi meno sviluppati? In realtà il pessimismo che fino a qualche anno fa era diffuso tra gli addetti ai lavori, oggi è stato sostituito da una vena di cauto ottimismo. Questo perché all’incertezza dei finanziamenti pubblici, sempre complicati a trovarsi, specie in maniera addizionale, si è sostituita la certezza degli investimenti privati e di nuovi strumenti finanziari, mossi dalle tantissime opportunità dell’economia low carbon e circular.
«Oggi sia il settore pubblico che quello privato svolgono un ruolo centrale nel contrastare il cambiamento climatico», spiega a Oltremare Kilaparti Ramakrishna, direttore affari esterni del Green Climate Fund. «Il GCF lavora direttamente con il mondo corporate per catalizzare investimenti privati nei paesi in via di sviluppo. E abbiamo un mandato particolare per l’inclusione delle imprese locali, in particolare le PMI, nei paesi in via di sviluppo, affinché sviluppino soluzioni pubblico-private contro il climate change». E se un tempo le corporation erano la causa di innumerevoli problemi ambientali, oggi tornano ad essere protagonisti. O almeno alcune di loro. Secondo la coalizione We Mean Business oltre 620 multinazionali hanno intrapreso azioni di sostegno alla lotta del cambiamento climatico attraverso la campagna Take Action, 40 utilities e giganti del calibro di Nestlé, Procter & Gamble e Unilever, finanziando anche azioni in paesi meno industrializzati.
Il capo della strategia climatica europea, Miguel Arias Cañete, ha ribadito recentemente di voler aumentare il sostegno dell’Unione all’adattamento al climate change, promettendo che il 20% della spesa estera EU sarà allocata per progetti correlati agli impatti del clima. Attenzione però: non saranno questi fondi pubblici statali la fonte principale per raggiungere il target dei 100 miliardi di dollari annui. «Tutta la finanza pubblica del mondo non servirà a portare avanti la rivoluzione climatica. La vera svolta verrà dagli investimenti privati», ha spiegato Cañete alla testata online Euractiv.
La cifra sontuosa di 100 miliardi di dollari è stata stabilita dagli Stati Uniti, durante i negoziati di Copenaghen e riproposta nell’articolo 9 dell’Accordo di Parigi nel dicembre 2015. Al fine di raggiungere quest’obiettivo sono stati attivati meccanismi di mercato, alcuni già in vigore nel protocollo di Kyoto, come l’ETS, l’Emission Trading Scheme, il sistema REDD+ (si veda l’intervista a Kevin Conrad) per la lotta alla deforestazione e riforestazione, il GEF e il Green Climate Fund (GCF), il fondo strategico creato all’interno del framework delle Nazioni Unite per stimolare investimenti pubblico-privati per la mitigazione e l’adattamento del clima.
Il GCF guarda non solo ai finanziamenti pubblici derivati dagli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS) o altri finanziamenti multilaterali (come il defunto carbon fund italiano alla Banca Mondiale), ma ha l’obiettivo di stimolare processi di co-partecipazione finanziaria tra pubblico e privato, attraverso sistemi di matching e blending).
«L’obiettivo del Green Climate Fund è aiutare i paesi meno sviluppati a limitare le emissioni di gas serra e adattarsi al cambiamento del clima. Per questo è fondamentale che gli investimenti del GCF abbiano un impatto trasformativo reale, coinvolgendo tutti gli attori», continua Kilaparti Ramakrishna. Tanti i progetti già finanziati in partnership pubblico-private, come il sostegno al Renewable Energy Financing Framework egiziano, finalizzato al raggiungimento del 20% di produzione di energia da fonti rinnovabili entro il 2022 attraverso il sostegno alla pianificazione e alle policy sostenuto da un blending di fondi GCF e finanziamenti della EBRD, per fomentare la partecipazione in un secondo stadio del progetto di banche commerciali e investitori privati. Obiettivo: 1400 GWh l’anno di produzione elettrica, per un risparmio di 800,000 tonnellate di CO2. Un altro progetto del GCF sostiene la XacBank, una banca mongola che fornisce prestiti alle imprese dello stato che investono in efficienza energetica. I 20 milioni di euro forniti dal GFC saranno in blending con altre fonti finanziarie, limitando i costi finanziari elevati per prestiti a breve periodo, sostenendo in particolare l’imprenditoria femminile
Il fondo a oggi ha raccolto 10,3 miliardi di dollari. Gli Usa si posizionano come i principali finanziatori con 3 miliardi di dollari. L’Italia ha annunciato un impegno di 334 milioni di dollari ma ne ha sborsati solo 268. Il paese più generoso? La Svezia, con quasi 60 dollari pro-capite, seguito dal Regno Unito, con 18,77 dollari pro capite, mentre l’Italia spende solo 4 dollari circa per abitante. Poco per le associazioni ambientaliste. «Questa cifra è timida, così com’è timido l’impegno nei confronti dell’ambiente e della lotta contro il cambiamento climatico dell’Italia», spiega Serena Giacomin, presidente dell’Italian Climate Network, che dal 2011 lavora per portare la questione climatica al centro del dibattito politico.
Però l’Italia sta comunque investendo. Nel biennio 2015-2016 il Belpaese ha complessivamente erogato 729,75 milioni di dollari per progetti di cooperazione e sviluppo inerenti al clima, un incremento del 70% rispetto a quanto allocato complessivamente nel 2013-14 (erano 428,76 milioni di dollari). E manca ancora tanto al conto finale da presentare al 2020. “Al momento l’Italia non ha ancora iniziato a rendicontare gli investimenti privati”, si legge sul documento di reporting inviato all’UNFCCC al 24 dicembre 2017 dalla DG Sviluppo Sostenibile del Ministero dell’Ambiente. “Ma stiamo attivando misure per mobilizzare il capitale privato”, continua il report, concentrandosi sull’aspetto più complicato: la contabilizzazione del contributo delle imprese. Per questo l’Italia sta svolgendo uno studio pilota per rendicontate la finanza private attraverso l’intervento pubblico in collaborazione con OCSE Research Collaborative, una rete che mette insieme istituzioni e centri di ricerca. In questo modo si potrà avere un sistema efficiente per conteggiare complessivamente le risorse mobilitate a livello nazionale pubblico/private. E le aziende interessate a investire potrebbero essere molte: dalle grandi utilities come Eni e Enel, alle società di infrastrutture, passando anche per imprese sociali, agricole, food, clean tech e economia circolare.
Ultima questione da risolvere, e vero nodo del pettine, il tema dell’addizionalità. Quante di queste risorse sono realmente “di più” rispetto a quelle tradizionali della cooperazione e sviluppo”? «Oggi dobbiamo conteggiare ogni risorsa coinvolta nei temi climatici, in quando diretta verso l’obiettivo di decarbonizzare il pianeta e rendere resilienti. Ed è normale che molte di queste risorse passino attraverso la cooperazione multilaterale o le agenzie», dice una fonte governativa che preferisce rimanere anonima per la posizione che occupa, posizione corroborata anche da una serie d’interviste di background da esperti di finanza climatica facenti parte delle Nazioni Unite. Insomma chi si aspettava cifre tonde, stabilite in finanziaria, sotto un’unica voce di budget si dovrà ricredere. Nella speranza che i meccanismi PPP siano governati con trasparenza e portino risultati efficaci movimentando risorse sufficienti . Nel grande calderone dell’Accordo di Parigi, la finanza climatica rimane la base. E un insuccesso potrebbe avere un effetto negativo ben più grave dell’annunciato abbandono degli USA dal tavolo climatico.