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Africa, adattamento e controllo del rischio, ecco le strategie dell’Onu

Oltremare ha incontrato Amjad Abbashar, direttore regionale per il continente africano dell'Undrr, l'ufficio dell'Onu dedicato al contenimento dei rischi climatici, geologici e ambientali

Ondate di calore mortali, inondazioni, siccità, tempeste. Aumenta sempre di più il rischio legato al cambiamento climatico, comportando perdite e danni sempre maggiori. Per ridurre gli impatti, oltre le politiche e la finanza per l’adattamento il sistema delle Nazioni Unite spinge sempre di più per il potenziamento del Sendai Framework per la riduzione del rischio di disastri attraverso l’Undrr, ufficio dell’Onu dedicato al contenimento dei rischi climatici, geologici e ambientali. Uno sforzo fondamentale specialmente per i Paesi africani più vulnerabili, dove mancano anche le infrastrutture di base per allertare la popolazione di un urgano, uno tsunami o un’inondazione. Oltremare ha incontrato Amjad Abbashar, direttore dell’ufficio regionale africano dell’Undrr per fare il punto sulla situazione.

“L’Undrr, l’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di catastrofi, è stato creato nel 1999 per implementare qualcosa chiamato Halo Framework for Disaster reduction”, spiega Abbashar. “Nel 2015 il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction è stato adottato dall’Assemblea Generale e l’Undrr ha avuto l’incarico di attuarlo”.

Come si struttura l’ufficio di Undrr?

La riduzione del rischio è coordinata a livello internazionale, regionale e nazionale. Ci concentriamo sulle quattro priorità del Sendai Framework: conoscenza del rischio, governance del rischio, finanza per riduzione del rischio di catastrofi e strategie di ricostruzione e “build back better”.

Per misurare il lavoro che svolgiamo, impieghiamo i sette obiettivi del Sendai Framework che tracciano questioni molto pratiche dalla riduzione della mortalità e del numero di persone colpite, a questioni più orientate alle politiche, come garantire che i governi abbiano strutture per la gestione del rischio e strategie nazionali in atto. In questo momento l’Obiettivo G, ovvero l’implementazione di sistema di allerta precoce (early warning systems, Ews) è molto importante.

Implementiamo il nostro lavoro attraverso cinque uffici regionali. Quello africano, dove mi trovo, lavora all’interno del sistema delle Nazioni Unite ma anche con organizzazioni regionali come la Commissione dell’Unione Africana e le altre organizzazioni subregionali come Igad ed Ecowas.

Perché la priorità sugli early-warning system?

Sono fondamentali per ridurre le perdite di vite umane.

A che punto siamo in Africa per la loro implementazione?

Grazie anche ai finanziamenti italiani, l’Africa ha effettivamente compiuto molti progressi in termini di creazione dello scheletro del sistema di allerta precoce in Africa. Un recente rapporto sull’Obiettivo G ha rivelato che solo il 40% dei Paesi africani dispone di sistemi di allerta precoce. La sfida principale sono gli aspetti di diffusione: gli allarmi non sempre raggiungono le persone più vulnerabili (donne, anziani, giovanissimi) e gli epicentri dei disastri.

Ecco perché abbiamo iniziato a istituire un sistema di allerta precoce continentale, presso la Commissione dell’Unione Africana. Se vai ad Addis Abeba, vedrai una situation room all’avanguardia. Il finanziamento della cooperazione italiana sta inoltre contribuendo ad istituire il Sistema di allerta precoce del Corno d’Africa presso il Centro climatico dell’Igad (l’Intergovernmental Authority on Development, blocco commerciali di otto Paesi del Corno d’Africa, nda) a Nairobi. E abbiamo anche istituito il Centro meteorologico africano (Acmad, nda), con sede a Niamey, Niger.

Quando il Segretario Generale annunciò che tutti gli africani sarebbero dovuti essere coperti dai sistemui di allerta precoce entro il 2027, avevamo già stabilito una partnership tecnica con la Fondazione Cima con sede a Savona, con il compito attuare sistemi di early warning al livello nazionale. Attualmente stiamo lavorando su 13 Paesi in Africa, abbiamo iniziato con Tanzania, Madagascar, Mozambico e Mauritius, punti caldi del clima in cui i cicloni, sempre più intensi a causa del cambiamento climatico, colpiscono frequentemente questo angolo sud-orientale dell’Africa, portando devastazione e morti.

Qual è la strategia per istituire un sistema di allerta precoce?

La prima cosa da fare è mappare per ottenere una migliore comprensione di quale sia lo stato dei sistemi di allerta precoce. Quindi stabilire una rete con diverse entità come Wmo, Undp, Federazione della Croce Rossa, Società della Mezzaluna Rossa, perché hanno dati chiave e sistemi di monitoraggio.

Lavorare sull’adattamente è una strategia di lungo termine per mitigare il rischio. Cosa sta facendo Undrr?

È fondamentale perché il 90% dei disastri in tutto il mondo è legato al clima. I Paesi devono disporre di un quadro completo di gestione del rischio e dei piani di adattamento nazionali. Per molti anni c’è stato uno scollamento tra gli approcci, le strategie e le politiche di adattamento. I piani sono certo importanti, ma serve una chiara implementazioni. Questo è difficile perché si deve connettere molte istituzioni diverse, numerosi soggetti a varia scala. Quindi il nostro compito è cercare di riunire tutti gli attori, cosa che ci è riuscita in sei Paesi (come Niger, Benin, Togo, Magadascar ), assicurando che questi piani siano integrati o almeno coerenti tra loro.

L’anno scorso, il meccanismo per perdite e danni (loss&damage) è stato approvato alla Cop 27. Numerosi aspetti sono ancora da definire, in primis come valutare i danni economici e le perdite di vite umane.

Il contributo dell’Undrr L&D è proprio quello di migliorare la valutazione delle perdite e dei danni. Quali sono quali sono i costi finanziari, quali sono i costi umani di un disastro? Forniamo assistenza tecnica per dare risposta a queste domande. Abbiamo dei progressi su questo in Africa, creando dei database sulle perdite da disastri a livello nazionale. Lo abbiamo fatto in 32 Paesi in Africa. Tuttavia, è carente la capacità di questi Paesi nel raccogliere dati che illustrino i danni economici e valutare il sostegno finanziario è necessario .

La capacità di raccogliere e conservare i dati nei Paesi in via di sviluppo è generalmente carente. Se raccolgono dati, essi non vengono quasi mai aggiornati. Quindi la maggior parte delle volte non abbiamo un’idea chiara delle perdite e dei danni legati al clima. In molti casi, ad esempio sull’avanzamento degli Sdg, il governo nazionale fa affidamento alle stime internazionali piuttosto che svilupparne di propri. Questo è un problema perché il dato non scende a livello provinciale, distrettuale, distrettuale.

Speriamo di risolverlo attraverso un sistema migliore e anche attraverso un maggiore impegno dei nostri partner a livello nazionale per essere in grado di raccogliere e conservare quei dati.

Quanto si investe per il risk reduction in Africa?

Gli studi che abbiamo fatto hanno dimostrato che non più dell’1,1% in media va direttamente alla riduzione del rischio di disastri.

Serve investire anche in awareness.

Quando guardiamo alle comunità a livello distrettuale, la questione della consapevolezza è fondamentale. Continuiamo a fare campagne come la Giornata per la riduzione del rischio di catastrofi, la Giornata mondiale dello tsunami, i programmi con tutte le agenzie delle Nazioni Unite. Questi ispirano l’azione locale per rafforzare le comunità, formarle e sensibilizzarle del disastro imminente, che tipo di perdite potrebbero verificarsi potenzialmente.

L’Undrr svolge inoltre esercitazioni simulate e sul campo in alcuni Paesi con la Federazione della Croce Rossa, le Società della Mezzaluna Rossa e le autorità nazionali, inscenando calamità e conducendo simulazioni dei piani di evacuazione. L’attenzione in questo momento è sul Malawi, anch’esso colpito dai cicloni e il Burundi sarà il prossimo, dove simulare i disastri delle inondazioni.

A che punto siamo dell’implementazione del Sendai Framework?

Vuole la visione ottimista o pessimista? Se vogliamo essere positivi possiamo dire che si stia avanzando velocemente sugli early warning system in Africa anche se c’è bisogno di molto più supporto per sostenere i sistemi nazionali e a livello di comunità locale. E siamo sicuri di poter contare sull’Italia. Se prendiamo però la revisione intermedia di Sendai discussi a maggio a New York all’Assemblea generale, che ha fornito una valutazione dell’andamento degli ultimi sette anni, la strada da fare è ancora molta. Serve lavorare di più sull’infrastruttura della conoscenza, quindi dei dati e sulla governance del rischio, in modo che le istituzioni vadano avanti insieme. E questo si riferisce a ciò di cui parlavamo prima: adattamento legato alla riduzione del rischio. La revisione intermedia ci indica la strada. È tempo di rimboccarsi le maniche e completare il Sendai Framework.

Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.
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