Cop15, cosa significa il Global Biodiversity Framework per la cooperazione
Approvato l’Accordo Kunming-Montreal per tutelare la biodiversità. Nuovi impegni nazionali e per la cooperazione allo sviluppo. Trenta miliardi di dollari di aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) entro il 2030 per i Paesi meno sviluppati
Il mondo ha un nuovo obiettivo: proteggere almeno il 30% delle terre, degli oceani, delle zone costiere e delle acque della Terra, arrestando e invertendo la perdita di biodiversità. La posta in gioco? La stabilità economica, politica e sociale del pianeta.
È dunque un risultato storico quello raggiunto dalla 15a Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica a Montreal, Canada, lo scorso 18 Dicembre. Centonovanta Paesi hanno adottato il Quadro globale per la biodiversità Kunming-Montreal (Global Biodiversity Framework o Gbf), il primo accordo globale di amplio respiro per garantire la stabilità dei servizi ecosistemici fondamentali per la sicurezza umana, lo sviluppo economico, la tutela della natura, la lotta contro il cambiamento climatico. Fuori dalla convenzione solo Stati Uniti, Vaticano, Corea del Nord e Yemen.
L’accordo comprende quattro obiettivi e 23 target da raggiungere entro il 2030 per arrestare e invertire la perdita di biodiversità, il taglio di 500 miliardi di dollari annuali di sussidi governativi dannosi per la natura, il dimezzamento degli sprechi alimentari, la concessione di maggiori diritti alle comunità indigene per la tutela della natura. E ancora: riduzione del rischio dei fertilizzanti, stop all’inquinamento da plastica, rigenerare almeno il 30% degli ecosistemi degradati e mobilitare risorse pubbliche e private per almeno 200 miliardi l’anno entro il 2030.
Per cercare un compromesso la presidenza cinese di Cop15 ha spinto per un accodo di grande respiro ma con qualche annacquamento sugli impegni e impatti del mondo industriale, su pesticidi e sui meccanismi di verifica, nonostante le proteste di alcuni paesi africani come la Repubblica Democratica del Congo, Camerun e Uganda, oltre che dell’Europa.
“Il Global Biodiversity Framework deve essere il trampolino di lancio per l’azione dei governi, delle imprese e della società verso la transizione verso un mondo positivo per la natura, a sostegno dell’azione per il clima e degli Obiettivi di sviluppo sostenibile”, ha dichiarato a Oltremare Marco Lambertini, direttore generale di Wwf International. Secondo il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, “l’accordo finale non è sufficiente. Per garantirne l’efficacia, serve un’azione forte e decisa da parte dei governi che dovranno attuare l’Accordo a livello nazionale. Dall’Italia, che è il Paese europeo con maggiore biodiversità, ci aspettiamo un’azione politica seria e decisa in questa direzione”.
Risorse per la biodiversità e sussidi dannosi
Con il Global Biodiversity Framework si dovranno eliminare gradualmente o riformare entro il 2030 i sussidi che danneggiano la biodiversità per un valore di 500 miliardi di dollari all’anno, aumentando gli incentivi positivi per la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità. Un riferimento molto importante che spiana la strada per un linguaggio simile sui sussidi alle fossili da includere nel prossimo negoziato sul clima, Cop28, che si terrà negli Emirati Arabi Uniti e che dovrà affrontare una volta per tutte gli obiettivi più ambiziosi della decarbonizzazione. Per i sussidi dannosi toccherà ai singoli stati intervenire per eliminarli nazionalmente e attraverso accordi per il commercio internazionale come il Nafta, ricorrendo a riforme anche all’interno della Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, che ha già eliminato lo scorso anno i sussidi per la pesca indiscriminata (overfishing).
Oltre ai sussidi l’attenzione di tutti i Paesi in via di sviluppo era sulle risorse. Si è stabilito di investire almeno 200 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti nazionali e internazionali relativi alla biodiversità provenienti da pubblico e privato. Servirà sostenere i Paesi meno sviluppati e gli stati insulari con almeno 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 e con 30 miliardi all’anno entro il 2030 utilizzando un nuovo Fondo per la Biodiversità che dovrà essere pronto il prossimo anno all’interno del Global Environmental Fund (Gef), un’istituzione che da decenni sostiene investimenti su clima e natura canalizzando risorse dai paesi Ocse.
“Sono onorato che la Conferenza delle Parti abbia chiesto al Gef di istituire quanto prima un Fondo globale per la biodiversità”, commenta Carlos Manuel Rodriguez, amministratore esecutivo del Gef. “La decisione include anche una serie di elementi importanti sull’accesso, l’adeguatezza, la prevedibilità, la governance equa e il finanziamento da una molteplicità di fonti”. L’Europa ha già impegnato circa 7 miliardi di euro per i prossimi tre anni. Germania e Francia tra i principali donatori, non pervenuta l’Italia. Secondo la viceministra all’ambiente Vannia Gava, intervistata dall’autore e presente a Montreal, “la convenzione sulla biodiversità e l’annesso Protocollo di Nagoya regolano interessi economici molto importanti che ogni Stato aderente vuole tutelare e legittimamente promuovere. L’Italia farà la sua parte in linea con l’Unione europea nel prevedere le risorse per la biodiversità anche sul fronte nazionale, includendo importanti iniziative per la trasformazione dei sussidi ambientalmente dannosi in un’ottica non ideologica, bensì pragmatica e finalizzata unicamente all’interesse nazionale”.
Gli obiettivi di conservazione
Le risorse economiche messe sul tavolo serviranno per realizzare gli obiettivi di conservazione, rigenerazione e riduzione dell’impronta ambientale a livello globale secondo i 23 target del Global Biodiversity Framework. Nei prossimi sette anni tutti i Paesi firmatari dovranno impegnarsi, Italia inclusa, per tutelare superfici crescenti fino al 30% entro la fine del decennio. Nuovi parchi e aree marine, ma che includano anche attività umane benché sostenibili; stop a consumo di suolo per la cementificazione e devastazioni inutili; stop alla deforestazione principale driver congiunto di perdita di biodiversità. La tutela della biodiversità e la rigenerazione degli ecosistemi degradati saranno sostenuti anche con nuovi strumenti economici, come green bond e biodiversity credits e saranno favoriti i progetti che coniugano adattamento e mitigazione climatica.
Sulla rigenerazione degli ecosistemi degradati il testo include un obiettivo importante: bisognerà completare o essere sulla strada del ripristino del 30% degli ecosistemi terrestri, acquatici e marini degradati. Un messaggio importantissimo per chi gestisce patrimoni fondiari, come le grandi aziende dell’agribusiness, e patrimoni immobiliari di grandi dimensioni, come il Demanio.
Delusione invece sulla riduzione dell’impronta ambientale del mondo economico. Senza un target specifico, azioni di riduzione dell’impronta ecologica di produzione e consumo – uno dei principali fattori di degrado ambientale – dovranno essere adottate a livello nazionale. “Senza impegni nazionali in questo settore i target dell’accordo non saranno sufficienti a raggiungere l’obiettivo lodevole di arrestare ed invertire la perdita di biodiversità entro il 2030”, commenta Lambertini. Male anche sul tema della riduzione pesticidi, che invece che essere gradualmente eliminati, si dovrà “ridurre il rischio complessivo”, riducendo di almeno la metà l’uso di sostanze chimiche pericolose. La battaglia per tutelare gli impollinatori rimane aperta.
Confermati invece gli altri obiettivi di conservazione. Si dovrà prevenire l’introduzione di specie esotiche invasive prioritarie e ridurre di almeno la metà l’introduzione e l’insediamento di altre specie esotiche invasive note o potenziali ed eradicare o controllare le specie esotiche invasive su isole e altri siti prioritari (Target 6); servirà porre attenzione all’uso e commercio per le specie selvatiche, in particolare per la riduzione dello spill-over di patogeni, come ci ha insegnato il Sars-CoV2 (Target 5), aumentare in modo significativo l’area, la qualità e la connettività, l’accesso e i benefici degli spazi verdi e blu nelle aree urbane e densamente popolate in modo sostenibile, integrando la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità e garantire una pianificazione urbana che includa la biodiversità (Target 12).
Biodiversità, largo alle imprese private
L’Accordo di Montreal-Kunming pone una nuova pressione sui governi ma anche sul mondo delle imprese. Gli stati infatti (Target 15) dovranno “adottare misure per incoraggiare e consentire che le grandi società e le istituzioni finanziarie per monitorare, valutare e divulgare regolarmente i loro rischi, le dipendenze e gli impatti sulla biodiversità”, oltre che rendere disponibili informazioni sugli impatti per i consumatori e dare informazioni sulle risorse genetiche impiegate.
Sul Target 15, “i Paesi hanno lanciato un messaggio chiaro alle grandi imprese e alle istituzioni finanziarie: preparatevi a stimare, valutare e divulgare i vostri rischi, dipendenze e impatti sulla biodiversità, al più tardi entro il 2030. Lo status quo, business–as–usual, non è più possibile”, commenta Stefania Avanzini, direttrice di OP2B, coalizione che raduna quasi trenta multinazionali Europee. Eliminato dal testo il termine “mandatory”, obbligatorio. Questo avrebbe comportano una svolta sulledisclosure obbligatorie sugli impatti ambientali delle aziende, rendendo perfettamente maturo il mercato finanziari.
C’è poi il vaso di pandora del colonialismo genetico, ovvero lo sfruttamento della ricchezza naturale e diversità genetica di quei paesi meno industrializzati e che hanno grande patrimonio di biodiversità da parte delle multinazionali e dei Paesi industrializzati. Finalmente il Gbf apre un processo su quello che i tecnici chiamano Dsi, Digital Sequencing Information: sarà creato un fondo, da finalizzassi entro il prossimo negoziato, Cop16, ad Antalya, nel 2024, che raccolga le risorse derivanti dallo sfruttamento di animali e piante dei Paesi poveri da parte delle multinazionali della genetica, della cosmetica e medicina.
Come monitorare i progressi?
Il reporting all’interno del Global Biodiversity Framework sarà obbligatorio. È stato definito un nuovo sistema di raccolta dati, che sarà combinato con la ricerca scientifica indipendente, da svolgersi ogni cinque anni o meno. Spetterà poi alla Convenzione sulla Biodiversità mettere insieme i report nazionali e analizzare i trend globali in due appuntamenti distinti (stocktake): 2026 e 2029, momento della verità per capire se i paesi stanno facendo la loro parte o hanno deciso di ignorare lo storico accordo. A quel punto toccherà alla società civile e alle imprese fare pressione affinché i governi mantengano le promesse.
Cooperazione & Biodiversità
Secondo un analisi dell’autore, dato l’obiettivo di mobilitazione di almeno 30 miliardi di dollari di aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dai paesi Ocse entro il 2030, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale (Maeci), e la cooperazione del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase), dovranno allocare complessivamente almeno 600 milioni al 2030 (stime proporzionate al Pil Italiano su quello globale), per progetti di cooperazione legati alla biodiversità nei Paesi prioritari, cercando di accelerare il trasferimento di competenze in quei Paesi e fortificando le competenze interne nei propri uffici (su questo i vari ministeri ci stanno lavorando da anni), che si aggiungeranno al miliardo l’anno circa della finanza climatica. Non dovranno essere addizionali, quindi niente doppio conteggio clima/biodiversità, e non dovranno essere risorse private in blending e matching. Serve però che il mondo della cooperazione, in particolare le Osc, si attrezzi per realizzare progetti di conservazione integrati alle popolazioni indigene, sappia collegare strategie di ripristino ambientale collegate alla filosofia One Health, includa in tutti i progetti chiari e misurabili elementi di tutela della biodiversità, con un sistema di accounting simile alle disclosure del settore privato. Il lavoro della Tfnd, la Task Force on Nature Disclosure, non servirà solo alle grandi aziende dell’agrifood, ma potrebbe diventare uno standard di account degli stessi progetti di cooperazione.
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.