Foreste, il mercato e il meccanismo REDD+ le salveranno?
La deforestazione è uno dei principali driver del cambiamento climatico. Più alberi si tagliano, meno si potrà contenere il rapido cambiamento del clima. La FAO stima che ogni anno vengano persi 7,3 milioni di ettari di foresta, l’equivalente dello stato di Panama. Meglio un’immagine più famigliare? Pensate alla superficie di 36 stadi da calcio ricoperti di foresta. Persi per sempre. Ogni minuto.
Il tema della riduzione di emissioni causate dalla deforestazione nei paesi in via di sviluppo è stato introdotto nel dibattito internazionale a partire dall’undicesima Conferenza Delle Parti (COP11) dell’UNFCCC, la convenzione quadro ONU sul clima, a Montreal nel 2005. Due anni dopo, a Bali, con la COP13 si è aperta la possibilità a meccanismi per ridurre le emissioni dovute alla deforestazione attraverso la conservazione e la gestione sostenibile delle foreste, in particolare nei paesi in via di sviluppo. Il meccanismo adottato, basato sull’assegnazione di un valore economico alla CO2, si chiama REDD+, ossia “Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation”, ed è oggi parte dell’Accordo di Parigi. Sul lungo termine servirà come sistema di compensazione per settori come quello aereo e navale, oltre altri meccanismi privati di finanziamento per compensazione. Insomma si paga per preservare le foreste per controbilanciare settori che fanno più fatica a ridurre le emissioni, a causa di carenze tecnologiche (aerei elettrici ce ne sono pochi oggi).
Oltremare è volato a New York per conoscere il team che ha ideato questo meccanismo, Kevin Conrad e Federica Bietta di Coalition for Rainforest Nations per conoscere meglio questo meccanismo e capire qual è la situazione attuale. Osannato dagli alfieri della finanza climatica, osteggiato da alcune ONG, REDD+ oggi sembra essere arrivato a una fase matura ed essere pronto per rallentare la deforestazione globale. Attraverso REDD+ si finanziano già numerosi progetti che mirano a proteggere e ricostituire aree forestali in modo sostenibile, nonché ad attuare altre opere di mitigazione legate al ripristino degli ecosistemi.
Conrad: Quando abbiamo iniziato a lavorare sul tema cercavamo un modo per conservare gli alberi. Come convincere contadini e imprese a non tagliare le foreste, dalle quali avrebbero ricavato denaro dal legname e terreni per coltivare? Nel 2003 iniziammo a fare i primi conti. E subito emerse che usando il meccanismo dei carbon credit (pagando quindi per non emettere CO2) si sarebbero potuti fare più soldi conservando le foreste invece che tagliarle. Eppure la Convenzione quadro sul cambiamento climatico ONU aveva escluso le foreste tropicali.
Bietta: La ragione? Il brasile bloccava ogni iniziativa. Per questo abbiamo iniziato a lavorare con un numero sempre crescente di Ong e attori internazionali per sviluppare questo modello e aggirare il veto del Brasile. Così è nata la prima Rainforest Nations Coalition, di fatto un gruppo teso a sostenere questo modello. Così abbiamo creato il primo gruppo di nove paesi, che nel complessivo avevano più alberi che lo stesso Brasile. In questo modo abbiamo proposto a UNFCCC il modello REDD, divenuto REDD+ (plus) quando si è iniziato a includere anche la riforestazione.
Quale è la situazione del modello REDD+?
Conrad: A oggi oltre 10 miliardi di dollari sono stati mobilitati dal settore pubblico e privato. Sembra una cifra elevata, ma noi avremmo bisogno di raggiungere la soglia dei 25 miliardi di dollari per ridurre la deforestazione del 25%.
Quindi al momento abbiamo ridotto la deforestazione solo del 10%?
Bietta: I dati globali mostrano questo. Il problema attuale è che il 90% dei finanziamenti è pubblico, il che significa che il settore privato non è sufficientemente coinvolto, e quei pochi soldi vanno attraverso accordi bilaterali, solo a tre paesi, Brasile, Malesia, Indonesia. Noi però abbiamo ideato alcune strategie per coinvolgere maggiormente il mondo delle imprese e delle istituzioni finanziarie poiché il pubblico può partecipare fino ad una certa soglia.
Chi sono gli stati più generosi?
Conrad: Oggi i principali donatori istituzionali sono soprattutto la Norvegia, uno dei maggiori contribuenti, la Germania, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Però, ad esempio, la Norvegia, che ha un settore forestale molto avanzato, può aumentare ulteriormente il suo impegno attraverso partnership pubblico-private. Anche l’Italia ha iniziato a farsi sentire negli ultimi anni, aumentando i contributi a REDD+ alcuni attori privati guardano con interesse al programma.
Quali strategie di scale-up sono necessarie?
Conrad: Innanzitutto dobbiamo eliminare i rischi legati agli asset, rendendo efficace a livello nazionale le strategie di deforestazione. Per fare questo serve attuare un programma da realizzare in tre fasi. Innanzitutto, dobbiamo stabilire un regime internazionale chiaro che ogni stato possa comprendere e attuare, creando un mercato di commodities chiaro. Per questa ragione è stato scelto di inserirsi nel processo negoziale dell’UNFCCC. La seconda fase è come creare una road-map nei paesi in via di sviluppo? Oggi ci sono già 65 paesi che hanno un piano nazionale per fermare la deforestazione. Quando è nato REDD c’era solo il Costa Rica. Abbiamo investito le risorse pubbliche in questa direzione: 2,5 miliardi sono stati impiegati per la realizzazione di questi piani, che richiedono la realizzazione di un inventario delle emissioni di gas serra, strategie di salvaguardia forestale, un sistema di monitoraggio nazionale. Queste sono componenti fondamentali, le fondamenta della strategia, che difficilmente gli attori privati possono finanziare. Una volta poste le basi della strategia si può iniziare la terza fase, quella di azione vera e propria finalizzata a fermare la deforestazione.
Quanti paesi hanno raggiunto questa fase?
Conrad: Oggi, dei 65 paesi, 25 hanno completato questo percorso e già ottenuto risultati misurabili. In questo modo hanno già potuto incassare i crediti di carbonio legati al programma REDD. Ed è a questo punto che il settore privato entra nel meccanismo. Una volta che si sono ottenuti i finanziamenti derivanti dai crediti di carbonio si può iniziare il trading con compagnie private. Al momento gli scambi non superano i due miliardi, però consideriamo che sono stati tutti investimenti in progetti volontari, pilota, di piccola scala. Ad esempio Enel è in contatto con noi da anni, e ora che il mercato sta per entrare in una fase matura potrebbero investire in questo mercato. Noi diamo sempre un avviso alle aziende: verificate che ci siano tutti i requisiti per investire in schemi REDD+ efficaci. Se ci sono, avanti.
Cos’altro serve?
Conrad: Un sistema accurato di contabilità della CO2 è fondamentale. Senza significa mettere il carro di fronte ai buoi. E molti paesi non capiscono il dettaglio necessario negli inventari per avere un impatto reale. Se fai compensazione delle emissioni, ma non sai quanto stai compensando come puoi dare un valore reale? Per questo è fondamentale la trasparenza e una contabilità puntuale. E quello che manca al momento è un luogo dove tutti i paesi possano provare che svolgono una contabilità trasparente, in modo che una compagnia ogni volta non debba fare verifiche o negoziare con ogni singolo ministro.
C’è un problema quando si contabilizzano gli alberi: stabilire la proprietà del terreno n modo da determinare chi incasserà dalla tutela del patrimonio forestale.
Bietta: Questo è fondamentale, senza di ciò i profitti derivanti da REDD+ rischiano di beneficiare gli sviluppatori e non le comunità locali. Mentre sono proprio quest’ultima quelle che devono essere beneficiari dello schema REDD+. In passato abbiamo avuto problemi, dove gli sviluppatori trattenevano il 90% dei profitti, installavano qualche pannello nelle comunità interessate, regalavano qualche computer alla scuola locale e nessuno dei cittadini ne beneficiava realmente.
Oltre il tema della proprietà c’è la questione del monitoraggio delle foreste protette. Quali tecnologie servono per monitorare che effettivamente gli alberi non siano tagliati per almeno 10 anni, la stima minima per realizzare una vera compensazione delle emissioni di CO2?
Bietta: Durante il nostro primo workshop, nel 2006, con l’Agenzia Spaziale Europea emersero le prime potenzialità dell’uso dei satelliti. Tuttavia si poteva valutare il cambio d’uso del suolo su larga scala ma non conteggiare albero per albero. Oggi le tecnologie hanno accelerato, grazie all’uso di tecnologie come Lidar o con progetti come quello di Google ha investito 500 milioni di euro per raccoglie immagini ad altissime risoluzione (quindi a scala geografica ridotta, nda) a livello globale. Google in futuro aumenterà il numero dei satelliti a bassa quota completamente computerizzati, in modo da avere un monitoraggio in tempo