Glasgow, alla Cop26 il patto per proseguire la lotta climatica
Numerosi passi in avanti e alcune cocenti sconfitte. Il documento firmato alla Cop26 costituisce una base importante su cui proseguire ma serve ora impegno e collaborazione bilaterale e multilaterale.
Mentre stampa ed attivisti si sono affrettati a rilasciare giudizi massimalisti, gli esperti stanno analizzando in dettaglio tutte le decisioni (oltre cinquanta) intraprese con il Glasgow Climate Pact, il patto siglato alla Cop26 di Glasgow il 13 novembre per sostenere la lunga sfida della decarbonizzazione dell’economia globale. Come ricorda lo scienziato del Centro comune di ricerca europeo (Jrc), Giacomo Grassi, “non si può dire se è stato un successo o un fallimento. Questo tipo di domande, riflesse nei titoli di molti giornali, sono fondamentalmente sbagliate. Cop26 non era ‘l’ultima occasione per salvare il mondo’, ma una tappa importante di un processo negoziale lungo e complessa”. Un’interpretazione sposata da molti esperti e anche una parte del mondo della cooperazione allo sviluppo ma rigettata da Ong come Greenpeace o A Sud, che hanno dichiarato il “fallimento” di Cop26.
L’accordo è stato trovato nella città scozzese dopo due settimane di durissimi negoziati, dove migliaia di esperti hanno lavorato in rappresentanza dei propri Paesi per cercare un’intesa complessiva per rafforzare e far progredire l’Accordo di Parigi, firmato nel 2015. Ancora una volta il negoziato si è svolto lungo la linea di demarcazione tra la vecchia definizione pre-Parigi di Paesi sviluppati, con la responsabilità storica delle emissioni (e quindi il dovere di compensare le nazioni colpite dal cambiamento climatico che sono anche i minori emettitori), e i Paesi in via di sviluppo che hanno la necessità di lavorare sul proprio adattamento e mitigazione. Una divisione che però oggi vede al suo interno nuove emergenti potenze industriali, su tutte Cina, India e Brasile, che si trovano di fatto in una posizione intermedia, come anche la Russia. Nonostante tensioni dell’ultimo momento alla fine il patto c’è stato, con qualche importante ribasso, rispetto all’ultima bozza presentata. Un risultato che ha scontentato un po’ tutti. Solitamente un buon metro per definire un accordo decente.
La festa è stata rovinata dalla brusca frenata da parte dell’India (e la Cina dietro di essa) sull’eliminazione del carbone dal mix energetico. “Ridurre” invece che “eliminare l’uso del carbone” è la richiesta del ministro dell’ambiente indiano, Bhupender Yadav. Confermata invece l’intenzione di eliminare i sussidi alle fonti di combustibili fossili. Una ripicca nata a causa delle insufficienti risorse messe a disposizione dai Paesi industrializzati, che hanno rimandato al 2023 la date entro cui saranno effettivamente raggiunti i 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2025 per rendicontazione, capacty building, adattamento e mitigazione nei paesi meno sviluppati. Nonostante questo è la prima volta che si menzionava in un documento Onu il carbone e i sussidi alle fonti fossili, perdendo così l’opportunità per azioni più efficaci, anche di tipo legale.
Obiettivi e Ndc
Nella bozza però ci sono vari elementi preziosi: non mancano i risultati importanti come la rafforzata ambizione politica di raggiungere un aumento medio delle temperature entro 1,5 gradi centigradi, con l’obiettivo di medio termine di ridurre del 45% le emissioni di Co2 entro il 2030, rispetto i livelli del 2010. Sebbene non sia definito con rilevanza come l’unico obiettivo, il testo offre chiare indicazioni sul livello di importanza di andare oltre il ‘well below 2°C ‘, dell’Accordo di Parigi.
Per questo si ribadisce di aumentare l’ambizione dei piani nazionali di riduzione delle emissioni entro il 2030, noti come contributi determinati a livello nazionale (Ndc), attualmente inadeguati a limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C e che, secondo le analisi pubblicate durante i colloqui, porterebbero a un disastroso riscaldamento di 2,4°C. Solo l’India ha prodotto un nuovo Ndc durante il negoziato. Ora c’è tempo fino al 2022 per allineare i contributi. Inizialmente, in base all’accordo di Parigi del 2015, le nazioni erano tenute a stabilire nuovi Ndc ogni cinque anni, con il nuovo appuntamento nel 2025. La modifica del calendario degli impegni di decarbonizzazione, approvata con il Patto di Glasgow, ha contribuito ad un calendario migliore e due appuntamenti di riallineamento, 2022 in Sharm-el-Sheik, in Egitto e nel 2023 ad Abu Dhabi.
Il libro delle regole dell’Accordo di Parigi: Art.6 e Trasparency
Tra le risoluzioni approvate a Glasgow c’è la chiusura del libro delle regole dell’Accordo di Parigi, che dunque può entrare al 100% in funzione come meccanismo. Forse in pochi ricordano che nel 2019 (una vita prima della pandemia) tutta la stampa definì Cop25 un fallimento poiché non vennero conclusi due articoli dell’accordo di Parigi, l’art.6 sui meccanismi finanziari (carbon market, etc) e quello sulla trasparenza. Oggi che a Glasgow si è raggiunto l’obiettivo, tutti sembra se ne siano dimenticati.
Con l’art 6 parte un nuovo mercato globale della CO2 tutto da costruire. Chi riduce o assorbe emissioni potrà cedere contratti ad imprese che vogliono compensare le emissioni che non riescono ad abbattere (il settore aereo, ad esempio). Il mercato della CO2 esisteva già, ma era fortemente inficiato da meccanismi di doppio calcolo, assenza di reporting e altri problemi, che ne gonfiavano artificialmente il numero. In questo modo si crea un regime commerciale strutturato tra Paesi, anche se rimangono alcune scappatoie da sistemare. Un potenziale acceleratore di risorse, nel rispetto dei diritti umani e necessario per movimentare risorse per i paesi più poveri, con meccanismi di prelievo legati al mercato delle emissioni. Importante notare che l’articolo approvato esclude l’uso dei crediti generati storicamente da “deforestazione evitata”, nell’ambito dello schema delle Nazioni Unite noto come Redd+. Questi risparmi di emissioni sono stati spesso “sovrastimati” e per questo lo schema è stato messo in cantina. Inoltre le controversie sui progetti di compensazione del carbonio saranno soggette a un processo indipendente di reclami, soddisfacendo una richiesta chiave da parte di gruppi nativi e ambientalisti.
Altro punto fondamentale la trasparenza. Mentre tutti si sbracciano a dire che gli impegni non sono sufficientemente ambiziosi, si approvavano i meccanismi per poter rendicontare in maniera chiara e confrontabile le azioni di ogni Paese, tema ostico che fu alla base del fallimento del negoziato di Madrid. A un livello molto elementare, le regole di trasparenza mirano a garantire che i Paesi riportino informazioni sufficienti per determinare se stanno rispettando o meno i loro impegni, se il mondo è sulla buona strada per raggiungere i suoi obiettivi climatici e, soprattutto, se queste informazioni sono affidabili. Questo è ampiamente visto come la chiave del processo di Parigi, che si basa sulle promesse fatte da ciascuno. Senza meccanismo si può ben proporre di volere raggiungere anche 1°C ma nessuno può davvero verificare. Si tratta di complesse tabelle excel, che hanno trovato consenso condiviso tra le parti.
Adattamento e finanza per il clima
I Paesi ricchi hanno concordato nel 2009 che i Paesi poveri avrebbero ricevuto almeno 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020, da fonti pubbliche e banche multilaterali, per aiutarli a ridurre le emissioni e far fronte agli impatti della crisi climatica. Ma entro il 2019, l’ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, sono stati raccolti solo 80 miliardi di dollari. Ora il Patto di Glasgow prevede di raggiungere l’obiettivo entro il 2023 ma si impegna anche a raggiungere il totale di 500 miliardi. A Glasgow si sono messe tantissime idee sul tavolo anche per riflettere sugli obiettivi post 2025: impegni da parte della finanza come la Glasgow Financial Alliance for Net Zero, fondi di investimento dedicati, investimenti multilaterali attraverso Banca Mondiale (25 miliardi per i Paesi meno sviluppati) e Fondo Monetario Internazionale e nuovi strumenti finanziari creativi, come i 350 miliardi di green bond emessi ad oggi. Secondo Luca Bergamaschi, analista e fondatore del think thank sul clima Ecco, “a livello internazionale e sotto la guida di Draghi, l’Italia deve portare avanti nel 2022 la sua visione di riformare l’architettura finanziaria globale per il clima. Questa deve passare da un nuovo mandato, nuove regole e nuovi meccanismi delle Banche multilaterali di sviluppo e dall’utilizzo di strumenti innovativi, come i Diritti speciali di prelievo emessi dal Fondo Monetario Internazionale. Fondamentale sarà garantire accesso ed evitare condizionalità per i Paesi più vulnerabili». Servirà capire bene anche come spendere i 100 miliardi e risorse addizionali del futuro regime post-2025, dato che in questo campo la cooperazione allo sviluppo giocherà un ruolo fondamentale per mettere a terra progetti, soprattutto di adattamento come richiesto dai Paesi meno sviluppati e dagli Stati più vulnerabili.
Oggi la maggior parte dei finanziamenti per il clima attualmente disponibili va a finanziare progetti di riduzione delle emissioni, come i programmi di energia rinnovabile nei Paesi a medio reddito che spesso potrebbero essere finanziati facilmente senza aiuto, perché realizzano un profitto. Ma i Paesi più poveri che hanno bisogno di soldi per adattarsi all’impatto del clima estremo lottano per ottenere qualsiasi finanziamento.
Per questo un importante risultato del Glasgow Climate Pact è stato quello di raddoppiare la percentuale dei finanziamenti per il clima destinata all’adattamento. Le Nazioni Unite e alcuni Paesi chiedevano una suddivisione del 50/50 tra finanziamenti per la riduzione delle emissioni e finanziamenti per l’adattamento. Siamo lontani dall’obiettivo ma c’è da scommettere che il tema tornerà alla Cop in Africa.
Loss&Damage, La grande insoddisfazione dei Paesi vulnerabili
Lasciano Glasgow con l’amaro in bocca i Paesi meno sviluppati e quelli vulnerabili, come Tuvalu o Fiji.
Sebbene si parli esplicitamente di Loss&Damage, un meccanismo assicurativo per i Paesi più vulnerabili che compensa le comunità in caso di catastrofi, istituzionalizzando una serie di incontri operativi (ben quattro entro il 2023), il testo di Glasgow non indica né una data per prendere una decisione per istituire una facility, né un processo continuativo, né se ci saranno effettivamente delle risorse economiche mobilitate. Il gruppo dei Paesi in via di sviluppo avrebbe voluto un’entità dedicata, con tanto di finanziamento, ma Usa e Ue sono rimasti freddi sul tema. Mohamed Adow, direttore del thinktank Power Shift Africa con sede a Nairobi, ha dichiarato: “I bisogni delle persone vulnerabili del mondo sono stati sacrificati sull’altare dell’egoismo del mondo ricco. Il risultato qui riflette una Cop bloccata dal mondo ricco e il risultato contiene le priorità del mondo ricco”.
“Serve ora un forte impegno dell’Europa, mancato a Glasgow, per costruire una larga alleanza a sostegno del Loss and Damage Facility in modo che diventi finalmente realtà proprio alla “Cop Africana” del prossimo anno in Egitto», spiega Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. “L’Italia deve fare la sua parte. Non solo sostenendo l’azione europea per la creazione del Loss and Damage Facility, ma garantendo anche la sua ‘giusta quota’ dell’impegno collettivo di 100 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2020-2025”, afferma Serena Giacomin. “Noi chiediamo almeno 3 miliardi di euro l’anno da ottenere dal taglio dei sussidi alle fonti fossili promesso dal ministro Cingolani in un’intervista a National Geographic a partire dal 2022”.
Gli accordi tematici
Numerose iniziative hanno preso vita durante i giorni della Cop26. Spesso le iniziative tematiche costituiscono un primo passo di avanzamento dentro il negoziato di tematiche importanti, che riguardano aspetti specifici della lotta al riscaldamento climatico, e stretti non all’unanimità ma tra vari gruppi di Paesi. Sulla deforestazione 100 Paesi hanno promesso di fermare questo fenomeno entro il 2030, e hanno stanziato, tra fondi pubblici e privati, quasi 20 miliardi di dollari per promuovere politiche contro la deforestazione. L’accordo non è piaciuto molto agli addetti ai lavori e attivisti per la vaghezza dell’accordo e la presenza di stati come Congo e Brasile, da sempre generosamente finanziati per la riduzione del taglio degli alberi e da sempre restii a fermare davvero la distruzione delle foreste.
Molto più importante l’iniziativa voluta da Usa e Europa, firmata da 108 Paesi, per ridurre del 30% le emissioni di metano entro il 2030. La Russia, il più grande emettitore di CH4 , è rimasta fuori dall’accordo, mentre la Cina che ha firmato un importante accordo di cooperazione sul clima con gli Usa e ha espresso l’intenzione di implementare la misura. Questa decisione potrebbe trovare spazio nel 2023 ad Abu Dhabi, con la benedizione del settore oil&gas che vende le tecnologie per ridurre le fughe di metano in fase di estrazione e trasporto.
Cinquanta paesi hanno firmato un accordo sul carbone, che prevede la dismissione delle centrali a carbone entro il 2030 (per i Paesi più ricchi) o per il 2040 (per i Paesi più poveri), e un’interruzione immediata alla costruzione di nuove centrali. L’Italia lo farà entro il 2025, ha ribadito Cingolani in un’intervista con l’autore. Infine attenzione sull’accordo firmato tra 22 Paesi prevede che tra il 2035 e il 2040 tutti i nuovi autoveicoli venduti saranno elettrici. ‘Niet’ da parte di Volkswagen, Stellantis, BMW, Renault, Nissan, Honda e Hyundai. Sopresa GM e Ford, che invece credono nel mercato dell’elettrico.
Biografia
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.