Il clima impazzito potrebbe raddoppiare le epidemie in Africa
Sylvie Briand, OMS: “Serve un coordinamento internazionale per studiare e analizzare gli impatti del cambiamento climatico sulle epidemie”. I dati però scarseggiano e serve maggiore protagonismo della cooperazione.
Quando pensiamo agli animali mortali dell’Africa, si tende a pensare ai leoni o ai serpenti. Qualcuno indicherà l’ippopotamo, conoscendo la forza di questo possente mammifero. Ma l’animale più letale del continente (e al mondo), in termini di persone uccise ogni anno, è la zanzara. Con un milione di morti all’anno (gli umani sono secondi, causando 475.000 morti ogni anno) questo piccolo insetto è il nostro killer più spietato. La sola malaria, trasmessa dalla zanzara Anophele, uccide 400.000 persone (principalmente bambini) e ne rende inabili altri 200 milioni per giorni. Altre malattie trasmesse dalle zanzare includono la dengue, che causa da 50 milioni di casi all’anno in Africa, la febbre gialla, che ha un alto tasso di mortalità, o il virus Zika, con i suoi effetti neurologici devastanti.
Ora questo devastante portatore di virus potrebbe essere ancora più difficile da controllare. Secondo Slomit Paz, del dipartimento di Geografia dell’Università Haifa, alle zanzare “piace caldo ed bagnato”. Può sembrare sconcio, e di fatto lo è. Quando la temperatura e l’umidità sono più elevate, le zanzare possono non solo nutrirsi più frequentemente, ma anche riprodursi di più. Si capisce come l’aumento di temperature e di piovosità in alcune aree dell’Africa, dovute al cambiamento climatico siano un segnale allarmante di un possibile aumento della diffusione della zanzara e delle malattie ad essa connesse. Numerose specie, come aedes aegypti tendono inoltre a diffondersi nelle aree urbane, dove trovano nutrimento e pochissimi nemici naturali. L’alta densità di zanzare e l’alta densità di abitanti risulta essere un mix esplosivo per il contagio.
Ma le zanzare non sono l’unico fenomeno che preoccupa gli esperti. Da anni ci si interroga sugli effetti epidemiologici della trasformazione del clima. Numerosi studi hanno accertato che il riscaldamento climatico a lungo termine tende a favorire l’espansione geografica di diverse malattie infettive (Epstein et al., 1998, Ostfeld e Brunner, 2015, Rodó et al., 2013), e che gli eventi meteorologici estremi possono contribuire a creare opportunità per ulteriori epidemie o focolai di malattie in cluster in luoghi e tempi non tradizionali (Epstein, 2000). Complessivamente, le condizioni climatiche condizionano le distribuzioni geografiche e stagionali delle malattie infettive e le condizioni meteorologiche influenzano i tempi e l’intensità delle epidemie (Kuhn et al., 2005, Wu et al., 2014).
«Quando pensiamo alle epidemie in relazione al cambiamento climatico dobbiamo vederle come un sistema complesso di relazioni causali e multifattoriali», spiega la dottoressa Sylvie Briand, direttore del programma Infectious Hazard Management dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, contattata da Oltremare. Non cambia, infatti, solo la geografia delle malattie, come accade con malaria, dengue, chikungunya, ma muta completamente l’esposizione a numerose malattie infettive ed epidemie. Rendendo il potenziale numero di infettati sempre più elevato.
Una serie di fenomeni complessi, concomitanti e intersecanti possono entrare in gioco. Ci sono cause puntuali, come le inondazioni o le bombe d’acqua che interrompono il normale servizio idrico e favoriscono la diffusione del colera. Oppure gli shock legati ai picchi di temperatura che possono causare stress termico. Sussistono anche cause strutturali, come gli impatti del cambiamento climatico sulla sicurezza alimentare e sull’approvvigionamento idrico, oppure legate alla fragilità dei territori. «Cittadini mal nutriti sono sicuramente più vulnerabili alle epidemie, e in alcuni casi la malnutrizione è conseguenza degli affetti del climate change, come le lunghe siccità», spiega Briand. Inoltre conseguenze delle manifestazioni meteo più violente del cambiamento climatico (inondazioni, innalzamento dei mari, dissesto idrogeologico) possono acuire migrazioni e conflitti. I quali a loro volta sono vettori di epidemie, aumentando così la diffusione dei virus anche in aree tipicamente estranee alla penetrazione di certe malattie.
Difficile sapere quanto impatterà complessivamente il clima sulla salute degli africani. Stime esatte non sono ancora state formulate. E’ possibile prevedere, però, dove si avranno gli impatti maggiori. «Sicuramente le popolazioni già vulnerabili saranno ancora più vulnerabili, mentre il numero di comunità esposte ad epidemie crescerà, in particolar nelle aree peri-urbane, dove non ci sono infrastrutture sanitarie e la densità umana è elevatissima», continua Briand.
Occorre dunque prepararsi per mitigare gli effetti del clima impazzito e ridurre gli impatti sulla salute in Africa. «Serve innanzitutto rafforzare i meccanismi esistenti, come l’International Health Regulations, una serie di strumenti legali adottati da 196 stati membri. Ogni stato deve capire che le epidemie possono essere più impattanti e quindi devono investire per l’adattamento. Inoltre è fondamentale un coordinamento sovra-nazionale: i microbi non hanno bisogno di un passaporto per viaggiare».
Comprendere le relazioni spaziali e temporali del clima e dei fattori ambientali diretti e indiretti della trasmissione delle malattie “portate” da vettori (aria, animali, acqua, persone) è importante per indirizzare meglio le attuali attività di controllo e prevenzione o prevedere sfide future. Secondo un articolo di Madaleine Thompson, dell’Earth Institute della Columbia University, sulle malattie in Africa, «l’adattamento ai rischi della malattie trasmessa da vettori legati alla variabilità climatica deve essere una priorità per i governi e la società civile nei paesi africani. Comprendere le precipitazioni e le variazioni di temperatura e le loro tendenze a più scale temporali, individuandone una potenziale prevedibilità, è un primo passo necessario per incorporare le informazioni climatiche pertinenti nel processo decisionale relativo al controllo delle malattie».
Tra le sfide più urgenti però c’è quella dei dati. «Noi abbiamo un sacco di dati, ma spesso la qualità non è sempre buona. Tanti Stati africani non hanno laboratori o sistemi di raccolta efficienti, quindi l’informazione non è di qualità», spiega Briand. «Se vogliamo fare previsioni accurate – e l’OMS sta lavorando a numerosi modelli in questo senso – serve investire in dati di buona qualità».
Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità rimane fondamentale la prevenzione. «Malattie come la febbre gialla, per quanto si possano diffondere, possono essere facilmente prevenute con i vaccini. Così come il colera con il controllo dell’acqua», aggiunge Briand. «Ci sono soluzioni a basso costo che ci possono aiutare a prevenire pandemie».
Per tante Ong la sfida è lavorare sull’adattamento, in modo da rendere resilienti le comunità. Amref ad esempio opera in Africa orientale per affrontare, insieme alle popolazioni locali le emergenze idriche e sanitarie. «L’acqua è uno dei driver centrali nei piani di adattamento e mitigazione e può avere un ruolo a prevenire importanti epidemie», spiega Roberta Rughetti, di Amref Italia. «L’Africa è una delle zone del Pianeta più impattate dai cambiamenti climatici. In Kenya, Uganda, Tanzania, Etiopia, sosteniamo 1,5 milioni di Africani beneficiari di progetti su gestione sostenibile delle risorse idriche, norme igienico-sanitarie corrette e tutela ambientale».
Per la cooperazione lavorare in questa direzione sarà una priorità sempre più urgente, sfruttando i modelli prodotti dall’Oms e lavorando su strategie efficaci e cost-effective di adattamento. Sarà sufficiente? La dottoressa Briand conclude laconicamente: «il cambiamento climatico è rapido, non sappiamo se il cambiamento umano è altrettanto rapido».