La sostenibilità delle città africane nascerà anche dagli slum
Crescita demografica e urbanizzazione pongono questioni urgenti su modelli di sviluppo che vanno sostituiti e possono trovare ispirazione dalla resilienza africana
Sono sempre i numeri che danno l’idea delle macrotendenze. L’Africa non fa eccezione. Il continente è destinato a vedere raddoppiata la propria popolazione entro il 2050 , con la regione subsahariana che quell’anno sarà abitata da oltre un miliardo di persone in più rispetto ad oggi. Secondo megatrend: l’urbanizzazione, che porterà più metropoli e più città. Quelli che oggi sono villaggi diventeranno centri urbani più rilevanti e molto presto (già quest’anno, secondo alcune stime dell’Onu) le città africane conteranno nel complesso più abitanti delle città europee o di quelle dell’America Latina.
Quindi, incremento demografico e processo di urbanizzazione sono fenomeni interconnessi che nel loro insieme rappresentano due sfide decisive su cui il continente è chiamato a confrontarsi ma il cui esito interessa il mondo intero. Perché uno sviluppo sostenibile avrà effetti benefici diretti sulle popolazioni africane ma anche sull’ambiente, sul clima, sulla gestione dei flussi migratori; al contrario, risposte approssimative a queste sfide rischieranno di pesare ancora di più sulla bilancia della sostenibilità globale e sugli obiettivi di sviluppo fissati nell’Agenda 2030, che è la road map e allo stesso tempo cartina di tornasole per misurare lo sviluppo o il mancato sviluppo o addirittura i passi indietro dell’umanità nel prossimo decennio.
Le misure di contenimento imposte in quasi tutti i Paesi africani per far fronte alla pandemia di Covid-19 hanno mostrato i limiti di contesti urbani dove milioni di persone vivono ammassati in baraccopoli, senza una resilienza economica – per di più – tale da consentire loro di rimanere in casa: uscire è sopravvivere, si guardi a Nairobi o a Lagos, a Luanda o Kinshasa. Sono contesti di fragilità dove l’architettura italiana potrebbe dare un contributo di sviluppo, soprattutto nella logica di un cambiamento a 360 gradi dei modelli ora dominanti. Ne è convinto Walter Baricchi, Coordinatore del Dipartimento Cooperazione, solidarietà e protezione civile del Consiglio nazionale degli architetti (Awn).
“Certamente l’architettura italiana – dice Baricchi a Oltremare – può contribuire a sviluppare i modelli locali, può contribuire con un approccio che non è solo tecnico, ma è anche umanistico, molto attento a quelle che sono le condizioni sociali dei luoghi in cui si va a intervenire. E quindi con modelli che cercano un dialogo con quelle che sono le culture della tradizione locale”. Sul processo di urbanizzazione in corso in Africa, Baricchi è particolarmente preoccupato: “È un’urbanizzazione che sta procedendo a ritmi elevatissimi e che non si riesce a controllare perché sta seguendo modelli che a mio avviso non funzionano e confliggono con i principi di una corretta cooperazione e sviluppo locale secondo i termini dell’Agenda 2030. Per uscire da questa impasse occorre cambiare completamente modelli. Adesso abbiamo un sistema urbanistico di consumo. C’è un’Africa letteralmente consumata non dagli africani ma dai grandi attori internazionali che ne saccheggiano le risorse. E questo introduce un forte impoverimento, un collasso delle tradizionali reti sociali e delle reti insediative, obbligando gli africani a convergere verso le grandi conurbazioni urbane dove trovano dei problemi pazzeschi: gestione dei rifiuti, approvvigionamento, condizioni igieniche, un sistema sociale alterato, un sistema sanitario fuori controllo e che invece è molto più efficace e facile da gestire se distribuito nel territorio. Ci sono dei modelli di sostenibilità da sempre a disposizione degli africani che stanno letteralmente sparendo”.
Uno che un suo modello lo sta portando in giro per il mondo e anche in Africa è Stefano Boeri. Le città sono sicuramente l’elemento umano da cui ripartire nella visione di Boeri, che dopo aver rivoluzionato una parte di Milano con il suo Bosco verticale, sta trasferendo questa idea in vari contesti e in Africa la prima tappa è stata l’Egitto. In un mondo sempre più urbanizzato, disegnare città sostenibili in grado di avvicinare la persona alla natura, secondo l’architetto milanese, significa fornire risposte a bisogni impellenti dell’umanità che la diffusione e le conseguenze della pandemia di Covid-19 hanno portato finalmente a nudo. Nel Manifesto sulla forestazione urbana fatto proprio da Stefano Boeri Architetti, si indicano le prime azioni che dovrebbero essere attuate per implementare nel concreto questa visione progettuale e si sottolinea come questo non sia un tema solamente italiano o europeo; anche l’Africa è in prima linea con progetti visionari e ambiziosi come il Great Green Wall, una grande muraglia verde in grado di limitare l’estensione del Sahara, e applicazioni di soluzioni tecnologiche innovative e strategie di gestione delle città per la produzione di energia, l’organizzazione dei trasporti, la scelta dei materiali e delle tecniche costruttive.
Ovviamente, la questione urbanizzazione ha fatto emergere riflessioni anche all’interno del continente. Joe Osae Addo, architetto ghanese celebre a livello internazionale per il suo approccio cosiddetto inno-native (ovvero il concepire un’opera come inserita in un ambiente che è interazione di luogo e di identità), ha proposto di spostare l’attenzione sui contesti rurali ovvero sui bacini comunitari da cui intere popolazioni si spostano per andare ad affollare le periferie magmatiche delle conurbazioni africane. “Se guardiamo alle grandi città africane – ha detto in un’intervista al mensile economico Africa e Affari – notiamo come la maggior parte dei problemi, dall’assenza dei servizi pubblici alla carenza di condizioni igieniche, siano una conseguenza diretta della costante migrazione dalle campagne. La mia domanda diventa allora: perché continuiamo a investire tanti soldi nelle città e non realizziamo invece infrastrutture necessarie a promuovere lo sviluppo delle zone rurali? È ovvio che le persone decidono di spostarsi dai loro villaggi, se tutte le risorse sono concentrate nelle grandi città: è puro istinto di sopravvivenza”.
Osae Addo crede che compito dell’architettura sia di dare maggiore importanza alla realtà dei luoghi circostanti e all’identità tradizionale del sito in cui si va ad agire: “Chi però decide quale debba essere l’indirizzo generale non sono né gli architetti né gli altri professionisti, ma gli attori a livello politico”.
Di diverso avviso è invece Roberto Forte, architetto italiano da anni di stanza a Città del Capo ma con un piede anche in Italia, a Catania, e impegni professionali che nel tempo lo hanno portato a Maputo, in Mozambico, e a Lagos e Port Harcourt, in Nigeria. “L’utopia di creare delle microeconomie nei villaggi va purtroppo contro la direzione di crescita dell’Africa. Ci sono però degli studi molto interessanti che riguardano gli insediamenti informali, le township, e qualcuno sta cominciando a riflettere sul fatto che forse bisognerebbe cominciare proprio da quelli, bisognerebbe imparare dall’urbanistica spontanea per capire quali in realtà possono essere i nuovi modelli di sviluppo per il futuro”. Un capovolgimento di prospettiva interessante per contesti urbani africani che nascono da un sostrato sociale e culturale molto diverso rispetto ai centri urbani europei, cinesi o americani, che poggiano su un diverso concetto di bellezza (bello è ciò che è utile) e da una diversa concezione del tempo (si vive il contingente, non si pianifica il futuro), come per esempio sottolinea l’architetto sudafricano Joe Noero. “Partire dalle township – aggiunge Forte – significa riprendere il modello sociale, il modello di gestione della famiglia che è una famiglia allargata, estesa. Non è la famiglia che intendiamo noi – mamma, papà e figli – è una famiglia molto più ampia dove ci sono gli amici, i cugini, gli zii e tutti quanti si occupano della crescita dei figli e della loro educazione, quando si può dare un’educazione. Inoltre non hai gente che vive in casa, hai gente che dorme in casa. Cucinano fuori, la loro vita si svolge all’aperto, e l’aperto non è un giardino con le palme e l’amaca. L’aperto è il vialetto su cui ci sono altre cinquemila baracche”. Che ci sia poi un’urgenza di fronte a sfide imponenti è innegabile: “Ma sono ottimista – conclude Forte – perché vedo delle dirigenze che come in Sudafrica stanno lavorando bene e sperimento una volontà e una voglia di fare in diversi Paesi del continente. Certo, la corruzione e l’influenza dei Paesi più ricchi rappresentano un freno e secondo me sono gli unici veri mali da sconfiggere”.
Un ventaglio, dunque, ancora aperto di riflessioni anche molto diverse tra loro, nelle quali però si rincorrono, quasi come filo conduttore, la centralità dell’elemento umano e l’importanza di modelli africani non necessariamente affini a quelli occidentali o cinesi e che possono trovare ispirazione, perché no, in quegli slum fatti di materiale riciclato e di una socialità e vitalità che solo in Africa si possono trovare.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.