Una pace blu è possibile?
Le guerre per l’acqua rischiano di aumentare, partendo dai grandi bacini fluviali come il Nilo e il Mekong. Serve garantire il diritto internazionale all’acqua e favorire trattati per una gestione transfrontaliera delle acque.
Può il Rinascimento portare distruzione? Se si tratta del nome di una diga può essere il caso. Dal 2011 è in costruzione la Grand Ethiopian Renassaince Dam, considerata ad oggi la più grande diga d’Africa mai realizzata. Progetto e finanziamento etiope, realizzata con know how italiano, questo colosso da 4,2 miliardi di dollari e 6,5 GW di potenza prevista, imbriglierà il Nilo per portare energia a milioni di abitanti, in particolare alla capitale Addis Abeba. Per i vicini sudanesi il progetto è benvenuto, poiché la regolazione del flusso d’acqua renderà più semplice l’irrigazione dei grandi progetti agricoli lungo la tratta sudanese del fiume Nilo. «Sarà un grande sostegno all’agricoltura del Sudan», spiega Osama Daoud Abdellatif, proprietario di Dal Group una grande impresa agricola con sede a Khartum.
Ma per l’Egitto la questione è critica. “Nessuno può toccare la quota d’acqua del nostro paese», ha dichiarato recentemente il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi». «Sosteniamo lo sviluppo dei nostri amici e fratelli in Etiopia, ma dobbiamo proteggere la nostra sicurezza nazionale, e l’acqua è una questione di sicurezza nazionale. Punto». Niente spazio di replica. Nel giro di qualche settimana i generali hanno tempestivamente presentato piani militari in caso di mancato rispetto delle richieste politiche sulla gestione idrica e iniziato a fare pressioni diplomatiche sugli stati attraversati dal Nilo. Dal canto suo il Sudan, a fine gennaio, ha richiamato i suoi ambasciatori dall’Egitto e ha avvertito il Cairo di ritirare la minaccia di voler schierare le truppe sul confine orientale del paese. A marzo la situazione si è distesa un poco dopo l’incontro dei tre presidenti di Etiopia, Egitto, Sudan a Khartoum, con l’annuncio di voler cercare una soluzione pacifica, senza fornire però dettagli.
L’Egitto si trova in una situazione delicata. «La sicurezza idrica del paese era labile ancora prima della costruzione della Diga Renaissance», spiega Michele Dunne, direttore delle ricerche sul Medio Oriente del Carnegie Endowment for International Peace. L’85 per cento dell’acqua per l’agricoltura in Egitto proviene dal Nilo. E analizzando gli scenari climatici futuri emerge come, anche senza la Renassaince Dam, già dal 2025 la sicurezza idrica dell’Egitto potrebbe peggiorare sostanzialmente. Quindi si può intuire la preoccupazione del governo di Al-Sisi di fronte all’incertezza causata dalla diga e al potenziale peso strategico e politico che essa può assumere in caso di un escalation tra paesi. Mohamed Abdel Aty, ministro egiziano per le risorse naturali teme che «una minima riduzione del gettito delle acque del Nilo, anche solo del 2 per cento, significherebbe far perdere alla nostra agricoltura ben 83 mila ettari di terreno fertile». L’Etiopia minimizza spiegando come la diga servirà per produrre energia elettrica, non per prelevare acqua.
Una situazione simile sta accadendo lungo il Mekong, che attraversa sei stati, dove nei prossimi quindici anni saranno costruite circa trentanove dighe, alcune già in fase avanzata di costruzione come la diga. Il Vietnam da mesi sta portando avanti un’offesa diplomatica per fare in modo che gli altri stati rivieraschi costruiscano le dighe in maniera sostenibile condividendo una strategia comune, che dovrebbe ricadere sulla Mekong River Commission, l’ente preposto per lo studio e la gestione delle acque del corso fluviale. Ma che per stessa ammissione del suo presidente, Pham Tuam Pham, non è altro che un ente di studio e ricerca, più che un centro di decisione politica. Secondo Rémy Kinna, analista di Transboundary Water Law Global Consulting «a oggi il Vietnam è l’unico stato ad aver ratificato la Convenzione sui corpi fluviali delle Nazioni unite, un meccanismo giuridico globale per facilitare la gestione dei fiumi e dei laghi transfrontalieri in maniera equa e sostenibile» segno di scarso interesse da parte degli altri stati, Laos e Cina su tutti, di voler cooperare. Il presidente cambogiano Hun Sen, durante il recente meeting del 4 aprile della Mekong River Commission ha cercato di “placare le acque”, annunciando una nuova fase di gestione del fiume, più condivisa più sostenibile. Ma per il momento il Vietnam, che teme una riduzione della pesca e del volume d’acqua nel delta, rimane scettico. «Serve un’azione concreta e in tempi rapidi», ha dichiarato il primo ministro vietnamita Nguyen Xuan Phuc. «Le risorse idriche del Mekong si stanno degradando in qualità e quantità».
Ci troveremo dunque di fronte ad una nuova serie di conflitti legati all’acqua? Oggi 276 laghi e bacini transnazionali sono condivisi da due o più Paesi, per un totale di 150 stati che impiegano la metà delle acque di superficie, e sono fonte del 60% dell’acqua dolce. Inoltre circa il 40% della popolazione vive lungo fiumi e bacini idrici che appartengono a due o più paesi con due miliardi di persone che condividono circa 300 sistemi acquiferi transfrontalieri. Dal 1948 al 2017 le Nazioni Unite hanno registrato 37 incidenti politici che hanno portato a conflitti aperti legati all’acqua, mentre nello stesso periodo 295 accordi internazionali multilaterali sulla gestione idrica sono stati stipulati tra la parti, garantendo la pace e la collaborazione.
Gli strumenti per una gestione diplomatica della risorsa ci sono. Sono attualmente due: la cosiddetta Convenzione dell’Acqua e la Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali per scopi diversi dalla navigazione. La Convenzione dell’acqua ha una struttura normativa fondata su tre pilastri: l’ obbligo di non danneggiare e prevenire, controllare e ridurre la significatività dell’impatto transfrontaliero; il principio di un uso delle acque ragionevole; e il principio di cooperazione. Per prevenire, controllare e ridurre gli impatti dovuti a possibili divergenze tra i paesi confinanti la convenzione invita a determinare “tutte le misure appropriate”, considerando anche un adeguato sviluppo delle infrastrutture e di tecnologia con appositi trattati bilaterali e multilaterali che possano regolare al meglio i rapporti economici tra i paesi. Ma sarà sufficiente per fermare le water-wars del futuro e raggiungere una pace blu globale?