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Cooperazione allo Sviluppo e imprese, ma anche pace e rispetto dei diritti: così l’Africa potrà raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030

Guardando all’Africa, è opinione comune che lo sviluppo del continente non passa attraverso un’unica ricetta ma vada necessariamente interpretato come la conseguenza di un’azione d’insieme che veda coinvolti gli stessi Paesi africani, la comunità internazionale, gli investimenti esteri diretti, la cooperazione, le rimesse della diaspora e il settore privato.

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È l’Africa a chiedere un progressivo e maggiore coinvolgimento dei privati per la propria crescita economica, a partire dallo sviluppo dell’agricoltura, uno dei settori prioritari di intervento della cooperazione. Anzi, è stato proprio questo, nel 2018, uno dei cavalli di battaglia del presidente della Banca Africana di Sviluppo (AfDB), Akinwumi Adesina, per due volte in Italia tra agosto e dicembre. “Perché l’agricoltura diventi un settore fondamentale per l’economia, credo che il discrimine sia cambiare le lenti con cui ci volgiamo all’agricoltura, il modo in cui finanziamo l’agricoltura, il modo in cui pensiamo e sviluppiamo politiche, per far sì che esse riescano a coinvolgere il settore privato in questo sviluppo” aveva detto Adesina intervenendo lo scorso agosto alla Fao. Parole che assumono tanto più valore se si considera che Adesina, oltre a guidare la maggiore istituzione finanziaria continentale, può vantare anche un’esperienza da ministro dell’Agricoltura della Nigeria.

Di fatto, guardando ancora all’Africa, è opinione comune di osservatori, esperti, politici, dirigenti che lo sviluppo del continente non passa attraverso un’unica ricetta ma vada necessariamente interpretato come la conseguenza di un’azione d’insieme che veda coinvolti gli stessi Paesi africani, la comunità internazionale, gli investimenti esteri diretti, la cooperazione, le rimesse della diaspora e, appunto, il settore privato.

Un argomento, quello del coinvolgimento delle imprese, che è ormai entrato a pieno titolo, grazie alla riforma delle precedenti norme legislative, nelle corde della Cooperazione italiana. Risale a novembre la pubblicazione del secondo bando dedicato alle imprese che porterà alla selezione di iniziative imprenditoriali innovative da ammettere a finanziamento/cofinanziamento e da realizzare nei Paesi partner di cooperazione per il perseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

 

 

Fare cooperazione coinvolgendo nuovi attori e mobilitando quindi risorse aggiuntive, nel rispetto dei principi dell’azione umanitaria, ha aperto poi a concetti che finora erano stati appannaggio del mondo della finanza. Ne è un esempio il Programme for Humanitarian Impact Investment (Phii), noto più semplicemente come Humanitarian Impact Bond, uno strumento completamente nuovo, messo a punto dal Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) per trovare altre forme di finanziamento alle proprie attività umanitarie, in cui il termine ‘bond’ deve essere letto come ‘private placement’, quindi collocamento di titoli riservato a un selezionato e ristretto numero di investitori internazionali. Anche nel caso dell’Humanitarian Impact Bond, l’Italia ha saputo cogliere gli spunti innovativi impegnandosi a partecipare al progetto con un esborso di circa 3 milioni di euro.

Coinvolgimento dei privati, quindi, e forme di finanziamento alternative a fronte di obiettivi che però non cambiano e che parlano di sviluppo, sostenibilità, condivisione, rispetto dei diritti umani. Perché il punto resta sempre quello di convogliare sforzi e iniziative verso il raggiungimento degli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030.

Sono obiettivi importanti, ambiziosi, che devono tener conto di un quadro in continua e completa evoluzione. Si pensi solo all’aumento della popolazione, fenomeno che non ha precedenti nella storia dell’uomo e che avrà riflessi globali con tre grandi sfide da vincere nel volgere di poco tempo: è sullo sviluppo dell’agricoltura, sull’accessibilità all’energia, sulla rapida creazione di infrastrutture che l’Africa si gioca infatti il proprio futuro. Un futuro che vedrà come palcoscenico decisivo le città. L’immagine di un’Africa rurale, fatta di villaggi, capanne e strade in terra battuta, sarà sempre più sostituita da un’Africa epicentro dell’urbanizzazione globale con il tasso di urbanizzazione che sfiorerà il 60% entro il 2060.

Per l’Africa questo processo di urbanizzazione galoppante porterà al tempo stesso grandi opportunità e grandi rischi. Secondo uno studio realizzato dall’AfDB, dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), l’urbanizzazione del continente può diventare un traino eccezionale per consentire quella “trasformazione strutturale” in grado di rendere solido e stabile lo sviluppo delle condizioni di vita locali.

Perché ciò accada e il fenomeno delle città africane si trasformi così in un catalizzatore di energie positive, sarà fondamentale analizzare e affrontare in maniera decisa sia gli aspetti

infrastrutturali sia gli aspetti socio-politici legati al fenomeno. In altre parole, occorrerà portare avanti insieme una serie di iniziative prevedendo accanto alla realizzazione di infrastrutture la creazione di lavoro, accanto alla fornitura di servizi di base la messa in posa di reti sociali funzionanti.

 

 

Processi che non seguiranno le tappe toccate in altre zone del mondo. In Africa già adesso si sta assistendo a diversi salti in avanti resi possibili dall’impiego delle nuove tecnologie e dalla rapida diffusione delle reti di telefonia mobile. Salti in avanti, noti in inglese come ‘leapfrogging’, con applicazioni pratiche che vanno dalla pianificazione infrastrutturale a quella della mobilità, alla fornitura di energia prepagata anche negli slum, alla possibilità di utilizzare le fonti di energia rinnovabile per portare la corrente elettrica anche nelle zone rurali.

Tanto si sta muovendo nel continente e tanto può trasformarsi in reali spinte positive.

D’altro canto, mettendo in fila lungo questa strada le questioni ancora da risolvere, emerge con chiarezza il grande lavoro che resta da fare. E basta citare alcuni dati o anche fare riferimento ad alcuni fenomeni per rendersene conto. Il continente, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, resta per esempio la prima regione del mondo per numero di minori costretti a lavorare. Una situazione preoccupante rispetto alla quale un impegno coordinato di comunità internazionale, governi, società civile e imprese può dare però risposte decisive.

È poi evidente come il perdurare di situazioni di conflitto – si pensi al Sahel, alla Somalia, al Centrafrica, al Sud Sudan – abbia immediati effetti sull’economia locale e sull’intera regione, oltre che sul rispetto dei diritti umani. Così come è reso evidente dalla posizione occupata dai Paesi africani nell’Indice di sviluppo umano dell’Onu quanto grande sia ancora il gap da colmare rispetto ad altre regioni del mondo.

Eppure, nonostante le crisi, le aree di insicurezza e un tam tam mediatico che amplifica le criticità dell’Africa, sembra quasi paradossale che stia crescendo il turismo e che anzi il continente risulti la terza regione del mondo per ritmi di crescita dopo Asia-Pacifico ed Europa. Per certi versi, insomma, l’Africa dimostra di avere gli antidoti per reagire alle difficoltà che sperimenta. E sono dimostrazioni anche concrete. Una di queste, forse quella che ci sta più cara per vicinanza storica e culturale, riguarda i grandi passi avanti compiuti nel Corno d’Africa: l’arrivo alla guida del governo in Etiopia del primo ministro Abiy Ahmed ha aperto la strada a una revisione delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea e alla successiva firma della pace. Una pace importante che sta rivoluzionando il contesto regionale: Eritrea e Gibuti hanno infatti avviato un dialogo per risolvere dispute frontaliere, ma anche la Somalia sta cominciando a far segnare progressi legati a questo nuovo clima, mentre le Nazioni Unite hanno eliminato le sanzioni imposte in precedenza su Asmara. L’arrivo, poi, alla presidenza dell’Etiopia di una donna, Sahle-Work Zewde, ha rappresentato un’ulteriore dimostrazione di quanto l’Africa stia cambiando.

Una trasformazione a macchia di leopardo, indubbiamente, costellata di vittorie e passi indietro, ma in cui un’Africa sempre più consapevole di se stessa e della necessità di dotarsi di propri modelli di sviluppo, alza la testa e finalmente prova a prendere in mano le chiavi del proprio futuro.

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