Cooperazione culturale e sviluppo, un’accoppiata vincente ma non sempre riconosciuta
Nonostante le battaglie condotte dall’Unesco, il tema della cultura non rientra in uno specifico SDG, ma è trasversale. La domanda è perché? L’Italia, spiega Emilio Cabasino di Aics, sta facendo un grande lavoro che è il momento di portare più alla luce
Una recente notizia ha aperto una nuova finestra su una vicenda annosa, forse poco nota da quest’altra parte del Mediterraneo ma che in Nigeria suscita sempre una particolare sensibilità. Parliamo della questione dei Bronzi del Benin, dove per Benin intendiamo qui la capitale di Edo, uno degli Stati che compone la federazione nigeriana, da non confondere con l’omonima e vicina Repubblica del Benin. La notizia risale ad aprile scorso e, contrariamente a promesse finora mai mantenute, questa volta sembra delinearsi un percorso differente: l’Università di Aberdeen in Scozia restituirà alla Nigeria un bronzo del Benin presente nella propria collezione museale e acquisito nel 1957 attraverso un’asta. Neil Curtis, capo dei musei dell’università, ha affermato in una dichiarazione che, secondo quanto emerso da una revisione della collezione, il bronzo è entrato a far parte delle opere scozzesi “in un modo che ora consideriamo estremamente immorale, quindi abbiamo adottato un approccio proattivo per identificare la controparte appropriata con cui discutere cosa fare”.
La scultura raffigura un Oba del Benin – nella cultura tradizionale del popolo Edo, l’oba è contemporaneamente un re e un capo religioso – e fu trafugata dai soldati britannici durante il saccheggio del 1897 di Benin City, nell’attuale Nigeria. In quell’occasione le forze britanniche rubarono migliaia di tesori culturali tra cui sculture e intagli in metallo e avorio, che oggi vivono in musei e collezioni private di tutto il mondo. Il dibattito sulla restituzione ha preso slancio negli ultimi anni. Molti musei stanno indagando sulla provenienza degli oggetti del Benin presenti nelle loro collezioni e hanno dichiarato la disponibilità a collaborare con la Nigeria per la creazione dell’Edo Museum of West African Art a Benin City. Quello di Aberdeen dovrebbe essere il primo bronzo a ritornare a casa.
Proprio in tema di restituzioni l’Italia ha fatto da apripista restituendo all’Etiopia la stele di Axum, un obelisco che dagli anni Trenta del secolo scorso si trovava a Roma, di fronte all’attuale sede della Fao, e che nel 2008 veniva ricomposto nella sua originaria sede etiopica.
Il tema del recupero del patrimonio artistico-culturale in Africa non è secondario e ha una doppia valenza: innanzitutto è un recupero della propria storia, l’affermazione di un passato che il periodo coloniale e post-coloniale ha provato a cancellare senza riuscirci; ed è poi una strada da seguire in termini di prosperità, di sviluppo di filiere come quella del turismo sostenibile o ancora del design anche industriale (tessile), della produzione musicale, della produzione video, della creatività nella sua accezione più ampia. Questo è anche il parere di Emilio Cabasino, che all’interno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) si occupa di patrimonio e attività culturali. Archeologo di formazione, trent’anni di esperienza al ministero italiano dei Beni culturali anche come punto di contatto con l’Unesco, Cabasino mette subito il dito nella piaga: “Non è facile identificare il patrimonio culturale come fattore di sviluppo. Anche nel dibattito internazionale sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile (noti con l’acronimo inglese SDGs) il tema della cultura non è stato identificato come un settore prioritario a cui attribuire tale riconoscimento”. Nonostante le battaglie condotte dall’Unesco, il tema della cultura non rientra in uno specifico SDG, ma è trasversale. La domanda è perché? Secondo Cabasino, cultura e sviluppo rappresentano un binomio purtroppo non sempre evidente, al contrario di quanto avviene in altri ambiti della cooperazione più “misurabili” come la sanità oppure l’agricoltura. Eppure, per il funzionario tecnico dell’Aics, questo binomio si può declinare grazie anche agli strumenti ovvero alle convenzioni internazionali già esistenti: la Convenzione dell’Unesco del 1972 sul patrimonio culturale, quella del 2003 sul patrimonio culturale immateriale, quella del 2005 sulla promozione e la protezione della diversità culturale. Senza parlare di documenti di riferimento adottati dall’Unione Europea.
L’Italia, sotto questo profilo, sta facendo tanto, mettendo a frutto competenze quasi naturali nate e consolidatesi grazie alla ricchezza culturale, archeologica, architettonica che caratterizza la Penisola. Sotto questo profilo università, ong, imprese, professionisti e istituzioni italiane si sono mossi nei Paesi obiettivo della Cooperazione seguendo sette filoni: restauri monumentali; siti archeologici e musei con la conseguente creazione di servizi di fruizione; assistenza tecnica a strutture pubbliche; formazione di tecnici specializzati; interventi a seguito di catastrofi naturali e guerre (come nel museo di Baghdad in Iraq); assistenza per l’iscrizione di siti nelle liste Unesco; recupero di aree urbane storiche (come ad Agadez in Niger); animazione culturale che porta con sé la grande sfida di favorire turismo sostenibile, artigianato, industria culturale e creativa.
Ora, se questo notevole sforzo dell’Italia probabilmente non appare nella sua reale dimensione nei media italiani e nella percezione dell’opinione pubblica italiana, per una invisibile legge di contrappasso è esaltata nelle varie dimensioni locali in cui agisce e interagisce. “Perché – continua Cabasino – avviene innanzitutto in un’ottica di collaborazione con le istituzioni del posto, contribuisce a recuperare pezzi di storia e di identità, crea sviluppo e posti di lavoro”. Gli esempi non mancano. L’Aics ha promosso uno scambio tra la città di Matera e la città afghana di Bamiyan che ospita i noti Buddha distrutti dai talebani. Entrambe le città sono iscritte tra i siti del Patrimonio dell’umanità dell’Unesco e sono caratterizzate da habitat rupestri storici simili e da analoghe esigenze di conservazione, restauro e valorizzazione di tali testimonianze. In Libano, l’Italia ha lavorato al restauro del Museo nazionale di Beirut; in Giordania, la Cooperazione ha condotto progetti per mitigare i rischi di crolli nel sito di Petra ma ha anche contribuito all’avvio di un Istituto del restauro. Un’operazione simile è stata condotta anche in Bolivia, dove l’assistenza tecnica al governo dovrebbe sfociare nell’istituzione di un centro di restauro a La Paz.
L’elenco è lungo (si potrebbero citare esempi recenti anche a Cuba e in Myanmar), il filo conduttore resta quello di contribuire al recupero della storia e della cultura come elementi di sviluppo sia sociale che economico. E se sono evidenti i vantaggi per i beneficiari dei progetti, meno evidenti ma non per questo meno importanti sono le ripercussioni sulla percezione esterna di questi luoghi, anche in termini di abbattimento di stereotipi a volte dannosi. L’Africa ci fornisce più esempi in proposito, dal momento che si tende a negarne una storia precedente al periodo delle colonizzazioni. Una negazione assurda, se consideriamo che il continente africano è stato in realtà la culla dell’umanità, il luogo in cui l’uomo ha mosso i suoi primi passi. Una storia che emerge con prepotenza per esempio ad Adulis, in Eritrea, luogo simbolico e altamente suggestivo in cui la Cooperazione italiana opera attraverso il Politecnico di Milano nell’ambito di un progetto (chiamato Vitae) avviato nel novembre del 2020 sulla scorta di un percorso iniziato nel 2011 dal Centro di Ricerca sul Deserto Orientale.
Il progetto Vitae, come raccontano i promotori, “ha l’obiettivo di costruire ad Adulis in collaborazione con le autorità eritree il primo parco archeologico nazionale sostenibile in Africa sub-sahariana. Una volta completato, il progetto contribuirà non soltanto allo sviluppo turistico dell’area, ma anche a promuovere consapevolezza e competenze in materia di lotta alla siccità e all’impoverimento del suolo”. Recuperando anche conoscenze antiche, dal momento che gli abitanti di Adulis – noti soprattutto per il commercio – realizzarono anche opere idrauliche di notevole importanza.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.