Cooperazione e social business, la nuova frontiera dell’impact investing
Inteso come azione di sviluppo sostenibile e misurabile, si sta facendo strada: un’opportunità per iniziative innovative, scalabili e replicabili
Cooperazione internazionale e social business possono essere la nuova frontiera per la sostenibilità? Roberto Randazzo scioglie questo interrogativo con le certezze che gli vengono da esperienze sul campo, da una più che decennale frequentazione dell’Africa orientale che ha coniugato con la sua attività di legale. Presidente di Esela, rete internazionale dedicata al social impact e membro del comitato scientifico del Global Steering Group (Gsg) for impact investment, Randazzo vede negli investimenti di impatto una formula vincente per spingere più in alto e più rapidamente l’asticella dello sviluppo: un’opportunità per le imprese e una opportunità per le Ong, perché permette a queste ultime di unire la loro tradizionale vocazione sociale con modelli imprenditoriali innovativi, scalabili e replicabili.
“Possiamo inquadrare l’impact investing come un’attività di investimento, quindi non filantropica, che si propone come obiettivo quello di essere attività sostenibile dal punto di vista economico, restituendo una redditività a favore degli investitori, ma che è allo stesso tempo in grado di produrre un grande impatto sociale” spiega Randazzo a Oltremare.
Le azioni di impact investing sono definite da tre elementi: devono essere investimenti intenzionali, che puntano cioè ad avere un ritorno di carattere sociale (quindi non è corporate social responsibility, ovvero attività che, per esempio, una multinazionale è obbligata a fare nell’ambito di territori in cui opera); devono essere misurabili, e per questo motivo esistono strumenti di misurazione dell’impatto sociale in grado di far percepire e quantificare il ritorno di parte sociale; e devono essere addizionali. “Il concetto di addizionalità – continua Randazzo – è forse cruciale e indica che quell’investimento si innesca in un ecosistema, in un ambiente, in un settore che non è attrattivo di per sé come gli investimenti mainstream. In altre parole, pensando al contesto africano, vuol dire che si va a investire in un settore dove un fondo di private equity non andrebbe a investire perché non ci vedrebbe un ritorno adeguato”. Se si uniscono quindi i concetti di intenzionalità, misurabilità e addizionalità si ha la definizione accademica che sostanzia il significato profondo di impact investing.
Come si intreccia quindi l’impact investing con i temi della cooperazione? “L’impact investing è di per sé uno strumento che può guidare la cooperazione lungo strade nuove innescando meccanismi virtuosi di investimento su dinamiche imprenditoriali” sostiene il presidente di Esela facendo l’esempio di MigraVenture (vedi l’articolo dedicato a questo progetto) o ancora, di Afripads Ltd, impresa sociale con sede a Kampala, specializzata nella produzione e nella distribuzione di assorbenti intimi lavabili (quindi riutilizzabili) che, mentre garantiscono un’efficacia comparabile con quella dei prodotti usa e getta, risultano accessibili anche alle donne a basso reddito. Dal suo lancio Afripads – si legge sul sito di Social Impact Agenda per l’Italia – ha raggiunto oltre 900.000 donne. I prodotti sono distribuiti dalle Ong e da agenzie internazionali nel mondo, e fornitori in Uganda e Kenya. Inoltre l’azienda ha deciso di mantenere la produzione nella provincia rurale di Masaka e offre lavoro full time a più di 150 ugandesi di cui il 90% sono donne. Afripads – si legge ancora – ha raggiunto risultati sociali rilevanti e allo stesso tempo ha conquistato una piena sostenibilità finanziaria (il break-even operativo è stato raggiunto nel 2014 e nel 2015 si sono registrati i primi utili). “I tempi sono ormai maturi – dice ancora Randazzo – per progetti ad elevato impatto con visione panafricana e per una cooperazione che sarà sempre più centrale nelle relazioni internazionali”.
In corso di trasformazione, secondo Randazzo, è in realtà anche il concetto di corporate social responsibility, nel senso che la multinazionale – soprattutto quella che è presente in Africa subsahariana per sfruttare le risorse minerarie e le materie prime presenti localmente – che ha piani di Csr, sta considerando il passaggio dalla corporate social responsibility alla corporate social innovation: “Invece di usare quel denaro in forma filantropica per pulirti la coscienza, quel denaro lo usi per investire, innescando una filiera produttiva parallela nelle aree dove intervieni, per integrare, abbattere e commisurare il tuo intervento spesso negativo dal punto di vista ambientale e umano con degli interventi che rimangano sul territorio. E questa è una differenza radicale”.
Coltivare questa sensibilità crescente a livello internazionale sull’impact investing è secondo Randazzo un modo per aprire strade nuove di sviluppo anche in consessi importanti come il G20 di prossimo passaggio a una presidenza italiana. A fronte di altri modelli ora imperanti a livello internazionale, quello dell’impact investing, conclude Randazzo, sarebbe estremamente attrattivo se diventasse la dinamica strutturale degli investimenti dei Paesi del G20 e quindi di quei Paesi dell’Unione Europea che guardano all’Africa. Un modello nuovo, non fondato su soldi e sfruttamento minerario, ma sulle capacità di innovazione di piccole e medie imprese inserite in determinate filiere, a partire da quelle agricole e delle energie rinnovabili, e collegate a sistemi finanziari di impact trasparenti e misurabili.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.