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Davos, una globalizzazione 4.0 che non dimentichi chi è rimasto indietro

Al World Economic Forum anche la voce dell’Africa dimenticata, di chi per decenni è stato costretto a vivere in un campo per rifugiati senza alcun diritto e senza alcuna voce sul proprio futuro

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“Stiamo aspettando da 25 anni un posto dove andare, un posto da poter chiamare casa… qui a Davos parliamo di sviluppo sostenibile, di come essere etici con robot e macchine, ma noi ci sentiamo ai margini di tutto questo. E io sono a Davos per dire che i campi profughi non sono etici, non è etico né sostenibile che delle persone semplicemente non esistano”. Sono parole che escono dal cuore quelle espresse a Davos, in occasione del World Economic Forum, da Mohammed Hassan Mohamud. Che escono dal cuore e che al tempo stesso rimbombano tra le sale ovattate e i vestiti eleganti di quella che è forse la più importante raccolta globale di decisori politici ed economici.

In fuga con la sua famiglia dalla Somalia, Mohamud ha trascorso gli ultimi 20 anni della sua vita a Kakuma, un campo profughi nel nord-ovest del Kenya, e in Svizzera è arrivato per dare voce a chi come lui è senza una casa, senza documenti, un numero e poco più.

Un numero che secondo i dati dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) ha un peso che il resto del mondo spesso dimentica: sono infatti 68,5 milioni le persone che a causa di conflitti, insicurezza, instabilità, emergenze e catastrofi naturali sono state costrette alla fuga. Di queste, 40 milioni sono sfollati interni, 25,4 milioni rifugiati, 3,1 milioni richiedenti asilo.

A Davos Mohamud è stato uno dei co-chair, ovvero uno dei cinque giovani e ‘inspiring’ leader incaricati di alternare con i loro contributi le discussioni svizzere, di riportare un po’ con i piedi per terra.

“La speranza che condivido con le mie sorelle e i miei fratelli – ha aggiunto Mohamud – è di avere una casa, dei documenti, di disporre di un senso di appartenenza e identità; ma su un palcoscenico globale vedo invece persone che non parlano di noi perché è come se non esistessimo”.

L’intervento di Mohamud quasi cozza con il grande tema sul tavolo di Davos: “Globalizzazione 4.0: modellare un’architettura globale nell’epoca della quarta rivoluzione industriale”. Un tema ampio e impegnativo che ha fatto da cornice ai 600 eventi e alle 300 sessioni del programma ufficiale. Ma è un intervento che sveglia in realtà e che consente di ricomporre un quadro più completo del mondo e dell’Africa in particolare. Se la globalizzazione, è il punto fatto proprio da Mohamud, è un elemento positivo, esso non dovrebbe distogliere l’attenzione da chi è rimasto indietro, da chi è stato costretto a vivere quasi la sua intera esistenza in un campo per rifugiati, senza la speranza di avere accesso all’istruzione, alla sanità, a pari opportunità.

 

 

Può essere simbolico il fatto che la Somalia, la difficile terra da cui è scappato Mohamud, sia tornata in mente anche con le parole di Abiy Ahmed, il primo ministro etiopico, che ha invece portato a Davos l’altra Africa, quella che sta provando a correre, a spingere sul tasto dello sviluppo sostenibile, che riesce a fare pace con se stessa. A riprova che tante facce, anche molto diverse tra loro, caratterizzano questo immenso continente, tutte ugualmente vere.

Ahmed si è infatti presentato come l’artefice di un nuovo corso nel Corno d’Africa, forte della pace ritrovata con l’Eritrea, che a sua volta ha imposto un cambio di passo a livello regionale di cui potrebbero godere anche la Somalia, Gibuti e il Sud Sudan. Ripercorrendo le tappe delle riforme avviate da quando è entrato in carica come capo di governo (aprile 2018), Abiy ha sottolineato come queste riforme facciano capo a tre pilastri fondamentali: “Una vibrante democrazia, una vitalità economica, un impegno per l’integrazione regionale affiancata a una reale apertura al resto del mondo”. Facendo riferimento ai contrasti con l’Eritrea, Abiy ha poi sottolineato come suo obiettivo non era semplicemente ricomporre il conflitto ma anche creare i presupposti per una integrazione economica regionale.

In effetti, se si dovesse scegliere un’immagine simbolo della scena politica africana nel 2018, la scelta potrebbe facilmente ricadere sull’abbraccio tra Abiy e il presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki.

Se Abiy a Davos ha portato il vento nuovo dell’Africa (oltre a lui c’erano anche il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, l’ugandese Yoweri Museveni, il ruandese Paul Kagame), il precipitoso ritorno in Zimbabwe del presidente Emmerson Mnangagwa ne ha allo stesso tempo fatto vedere i limiti. Richiamato in patria da proteste nate dal rincaro del carburante e da dimostrazioni che ne hanno messo in discussione la leadership, Mnangagwa ha fatto saltare la sua partecipazione al Forum ricordando, indirettamente, a tutti quanto il continente abbia bisogno di una vera collaborazione con la comunità internazionale per incanalarsi con decisione lungo la strada di uno sviluppo sostenibile.

D’altra parte, su quali siano i temi chiave nel dibattito politico-economico africano del 2019 è stato chiaro il presidente della Banca Africana di Sviluppo, in un’intervista al mensile Africa e Affari: “Il primo, indubbiamente, sarà una discussione ampia e generale sul finanziamento delle infrastrutture, che restano un elemento centrale dello sviluppo africano. Dobbiamo trovare modelli di investimento per dare al continente infrastrutture di qualità senza incidere eccessivamente sul debito. Sono molto ottimista sul fatto che il 2019 sarà anche un anno chiave per l’Area di libero scambio africana (AfCFTA, African Continental Free Trade Area), un elemento in grado di dare una grande spinta in termini di commercio e investimenti in tutto il continente. Un altro tema centrale per il 2019 per l’Africa sarà quello relativo a cosa l’Africa intende fare per affrontare la questione del lavoro. Possiamo parlare quanto vogliamo della crescita economica e macroeconomica, ma se questa crescita non crea lavoro, stiamo solo perdendo tempo. Non possiamo guardare solo alla crescita, ma come africani dobbiamo interrogarci sempre di più sulla natura della crescita e sulla natura e la qualità degli investimenti che portano lavoro”.

Un impegno che deve essere preso per gli africani e per tutti quei rifugiati che come Mohammed Hassan Mohamud chiedono semplicemente il diritto di chiamare un posto “casa”.

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