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©Alex del Rey – FIAN International

Donne, pace e sicurezza: l’impatto dei conflitti e la storia della più antica organizzazione femminista pacifista

In Camerun, Boko Haram a nord e il conflitto separatista a ovest stanno avendo conseguenze innanzitutto sulle donne e sui prezzi dei generi alimentari. Perché l’agricoltura passa soprattutto attraverso le loro mani, come sottolinea anche la Wilpf.

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Le foreste attorno a Yaoundé accolgono i viaggiatori che arrivano in aereo offrendo subito l’immagine di un Paese rigoglioso dove il verde è il colore dominante. Eppure il Camerun, allungandosi dalla frontiera meridionale che tocca Gabon, Congo e Guinea Equatoriale fino all’area delle savane e del lago Ciad a nord, offre panorami molto diversi e purtroppo anche uno spaccato di problematiche ricorrenti in alcune zone d’Africa.

Proprio nella zona del lago Ciad è Boko Haram, che ha trovato terreno fertile per le sue azioni, mentre a ovest da circa due anni si assiste all’escalation di una crisi sintetizzata nella presenza di gruppi separatisti in lotta per l’autonomia di un sedicente Stato dell’Ambazonia che corrisponde alle due regioni anglofone del Camerun, Paese altrimenti francofono. Una divisione che rimanda al passato coloniale, alla compresenza di francesi e inglesi (subentrati dopo la Prima guerra mondiale ai tedeschi) e a promesse politiche ed economiche secondo i separatisti mai mantenute dal governo centrale.

Quale sia il bilancio di questa crisi che dopo le proteste di piazza e la reazione governativa si è trasformata in un confronto armato aperto, non è chiaro. I dati che circolano sulle vittime sono stime, poco attendibili.

“Quel che è certo è che una grande percentuale degli sfollati interni causati dal conflitto è rappresentata da donne” dice Patrizia Scannella, direttrice dello Human Rights Program della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf), la più antica organizzazione femminista pacifista del mondo, costituita nel 1915 e oggi presente anche in Camerun. La storia del Wilpf comincia in piena Prima guerra mondiale, quando 1200 donne di diversa origine, cultura e lingua si riuniscono all’Aja, nei Paesi Bassi, per studiare, condividere esperienze ed eliminare le cause della guerra. Ancora oggi, invariato è il senso di questa organizzazione, che in Africa opera per rendere palese come i conflitti spesso colpiscano le donne e le fasce più deboli delle popolazioni e per promuovere la partecipazione effettiva delle donne alla vita sociale, politica ed economica, e nei processi di pace, formali e informali. E ad essere colpito, restando in Africa, è l’anello più importante della produzione agricola e quindi della sicurezza alimentare, dal momento che le donne – secondo dati della Fao – rappresentano oltre il 50% della forza lavoro impegnata in agricoltura. In Camerun come in Burkina Faso, in Nigeria come in Mozambico, basta andare per i campi per avere una chiara visione di questo impegno massiccio delle donne, spesso non riconosciuto nei diritti alla proprietà della terra e alla suddivisione delle risorse.

Di fatto, in Camerun uno degli effetti generati dal conflitto in corso nelle regioni anglofone ma anche dall’insicurezza nel nord, dove opera Boko Haram, è stato l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari: a lavorare nei campi erano le donne e quando queste sono state costrette alla fuga, sono venuti a mancare i raccolti con un conseguente calo della produzione e l’aumento dei prezzi nei mercati.

 

©Charlotte Hooij/WILPF

 

Lo scorso agosto l’Ufficio dell’Onu per gli affari umanitari (Ocha) ha provato a quantificare il numero degli sfollati: secondo i dati raccolti, la crisi nelle due regioni anglofone del Camerun ha causato circa 450.000 sfollati interni, equamente distribuiti tra South Western Region e North West Region. A questi Ocha ha aggiunto 21.000 persone che hanno trovato rifugio nella vicina Nigeria. Quasi mezzo milione di persone, strappate dalle loro case e costrette molto spesso a riparare nella boscaglia. Nel nord del Camerun invece, e considerando anche Niger e Ciad, stando ai dati aggiornati a novembre dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr), le azioni violente di Boko Haram hanno causato 471.000 rifugiati interni. Per avere un quadro completo, occorre infine aggiungere che il Camerun (dati sempre Acnur/Unhcr) da anni riceve e ospita anche rifugiati provenienti da altri Paesi: dal Centrafrica in particolare (267.813 persone) e dalla Nigeria (101.404). Una situazione difficile che ha visto anche l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) varare dei progetti di assistenza. D’altra parte, con l’adozione nel 2016 del suo Terzo piano d’azione nazionale (in attuazione della risoluzione dell’Onu 1325 (2000) 2016-2019), l’Italia ha fissato tra gli obiettivi da raggiungere – anche attraverso le attività della stessa Aics – la riduzione “dell’impatto dei conflitti sulle donne e sui minori, promuovendone la partecipazione efficace e trasformativa nei processi di prevenzione, mitigazione e risoluzione del conflitto, così come nei processi decisionali”.

“Siamo per il dialogo e per il confronto, diciamo no alle risposte militari di fronte a preoccupazioni che vengono dalla popolazione” dice Sylvie Jacqueline Ndongmo, presidente della sezione camerunese di Wilpf. Le sue parole danno voce a decine di migliaia di donne sfollate e hanno un peso significativo anche alla luce delle ultime elezioni presidenziali che hanno visto la riconferma a capo dello Stato di Paul Biya (al suo settimo mandato).

“Una precondizione per raggiungere una pace duratura, in Camerun come nel resto dell’Africa – sottolinea Ndongmo, raggiunta mentre si trova a Ginevra – è di far tesoro del potenziale delle donne rurali attraverso il loro coinvolgimento effettivo e la loro partecipazione significativa nei processi di mediazione, di pace e in tutti i processi politici e decisionali”.

Il dialogo contro i conflitti, la pace per società più giuste, eguali ed inclusive, in cui le donne dovrebbero avere un ruolo prioritario e riconosciuto, proprio perché uno dei pilastri dell’economia, l’agricoltura, passa per le loro mani.

 

©Charlotte Hooij/WILPF

 

“Questa è una ricchezza – prosegue Patrizia Scannella, italiana con una lunga esperienza nel campo dei diritti umani maturata ad Amnesty International tra Londra e Ginevra e quindi portata in dote alla Wilpf – che diventa ancora più evidente quando si pensa alla silenziosa e concreta opera che le donne portano avanti nella promozione di sistemi alimentari che sfuggono alle logiche commerciali e contribuiscono a preservare un patrimonio di varietà di inestimabile valore”. Tale contributo è spiegato in maniera molto lucida dal Global Network for the right to food and nutrition: in un suo rapporto, lanciato insieme a Global Convergence of land and water struggles, si sottolinea come in Africa occidentale più dell’80% dei semi utilizzati in agricoltura è selezionato secondo metodi tradizionali contribuendo alla salvaguardia di varietà altrimenti a rischio. Un’opera, appunto, silenziosa e concreta che vede le donne, ancora una volta, in prima linea.

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