Innovazioni per lo sviluppo, da Sistake a Freetown passando per lo spazio
Moltiplicazione dell’impatto e valorizzazione della diversità. Questi i due temi che hanno animato a Milano l’Open Day dell’Innovazione 2023, evento che unisce Italia e Africa con storie di innovazione e buone pratiche dal mondo della cooperazione
Moltiplicazione dell’impatto e valorizzazione della diversità. Sono stati questi i due temi fondamentali che hanno animato a Milano la terza edizione dell’Open Day dell’Innovazione 2023, un evento organizzato da Innovazione per lo Sviluppo – programma promosso da Fondazione Cariplo e Fondazione Compagnia di San Paolo – che unisce Italia e Africa attraverso storie di innovazione e buone pratiche dal mondo della cooperazione internazionale allo sviluppo.
La moltiplicazione dell’impatto, come hanno sottolineato gli stessi promotori, si riferisce all’idea che le soluzioni innovative possono avere un effetto positivo maggiore se vengono realizzate in modo collaborativo. Non soltanto quindi con l’obiettivo di essere scalate e replicate in nuovi contesti, ma anche con lo scopo di coinvolgere nuovi attori.
Il secondo tema, quello della diversità, è stato a sua volta interpretato nella sua accezione più ampia: la diversità, è stato sottolineato, riguarda non soltanto le differenze culturali e di genere, ma anche le differenze relative al background, alle competenze e alle esperienze di ciascuna persona coinvolta.
Al Meet Digital Culture Center del capoluogo lombardo, attorno a questi due grandi temi lo scorso 27 giugno si è discusso di progetti concreti. Ne sono stati presentati 44 con oltre 500 persone che hanno dialogato con quattro centri di innovazione situati in altrettante capitali africane: Nairobi, Kampala, Dakar e Ouagadougou.
Anche l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) ha presentato un suo innovativo progetto, Sistake, ovvero Sistema Integrato degli Stakeholder, una piattaforma digitale che ha l’obiettivo di rafforzare l’efficacia, l’unitarietà e la trasparenza di tutto il mondo legato alla cooperazione, come ha sottolineato nella sua presentazione Emilio Ciarlo, responsabile delle relazioni esterne e della comunicazione dell’Aics.
Il nuovo sistema consentirà a ciascun partner della Cooperazione, tramite un account, di avere accesso ai quattro grandi assi su cui poggia Sistake: i bandi di gara, il knowledge management, il community listening e Open Aid. In altre parole, ha detto Ciarlo, sarà una piattaforma unica in cui si potranno presentare i documenti per partecipare a un bando, ci saranno strumenti di condivisione, funzionalità social e dati utili per sapere cosa fa la Cooperazione, dove opera, quali sono i fondi e come sono utilizzati, quali sono i risultati raggiunti.
Ma l’evento di Milano è servito anche ad aprire una finestra su progetti che già oggi stanno cambiando il volto dell’Africa facendo perno, da una parte, sulle tecnologie e sull’innovazione e, dall’altra, sulle specifiche esigenze del continente.
La scienziata ugandese che protegge i raccolti dallo spazio
Chi penserebbe che esiste un legame tra i satelliti della Nasa e i campi di un contadino del Sahel o del Corno d’Africa? Questi due mondi distanti tra loro migliaia di chilometri hanno trovato un punto di contatto in Nasa Harvest, un programma dell’agenzia spaziale statunitense che tramite una combinazione di dati satellitari e a terra analizza, monitora e crea soluzioni per proteggere le colture nell’Africa orientale e meridionale. Alla guida del progetto nel continente africano c’è la scienziata ugandese Catherine Nakelembe, professoressa associata e ricercatrice all’Università del Maryland, negli Stati Uniti, e membro del team di scienze applicate Servir della Nasa in qualità di responsabile tematica per l’agricoltura e la sicurezza alimentare. Nakelembe ha anche ricevuto nel 2020 l’Africa Food Prize per il suo lavoro in difesa della sicurezza alimentare da una prospettiva particolare: lo spazio.
“Quello che facciamo” ha spiegato alla rivista Africa “è fare in modo che questi set di dati raccolti dalla Nasa, dall’Esa e da altri partner, tramite i loro satelliti, siano utili nel processo decisionale in campo agricolo”. Le informazioni servono per esempio a capire se una produzione in un determinato territorio cala, aumenta o è a rischio di andare distrutta, e perché. “Un agricoltore vuole sapere quando piantare, cosa piantare, cosa potrebbe influire sul raccolto e qual è il suo potenziale. Un politico vuole sapere le stesse cose, ma su scala molto più ampia”. Mostrando il cambiamento di un’area nel tempo si rende più facile ai governi capire quando intervenire e come.
Il lavoro e la ricerca di Nakelembe intersecano anche i cambiamenti climatici: “Dopo avere osservato le alterazioni nell’intervallo temporale in esame, integrando questi dati con proiezioni climatiche possiamo iniziare a prevedere i mutamenti futuri di colture e aree agro-ecologiche in un modo che non sarebbe stato possibile sul campo”, spiega la direttrice di Harvest Africa. Su queste proiezioni si basa anche lo sviluppo di sistemi di allerta precoce per eventi meteorologici potenzialmente distruttivi. Grazie a queste informazioni le comunità possono studiare strategie di adattamento, come il passaggio ad altre coltivazioni, e di mitigazione del rischio di alluvioni.
Nel lavoro della scienziata non ci sono però solo i satelliti. Uno dei progetti di Nasa Harvest è Helmets Labelling Crops, che raccoglie dati a terra in Kenya, Mali, Rwanda, Tanzania e Uganda tramite piccole videocamere montate su caschi da motociclista o sulle auto guidate da volontari. Spiega Nakelembe che i dati così reperiti vengono quindi confrontati con quelli satellitari e utilizzati per creare mappe di colture specifiche e per valutare con precisione l’insicurezza alimentare e il cambiamento climatico. Il progetto collaterale Street2Sat trasforma queste immagini in grandi set di dati georeferenziati, con informazioni sulla posizione e sul tipo di raccolto. Con tali informazioni vengono addestrati algoritmi per riconoscere colture specifiche come il mais o la canna da zucchero: i dati sono inseriti in modelli di apprendimento automatico per produrre mappe su scala regionale.
Da Freetown a TreeTown, più alberi per il clima
Il clima e gli effetti dei cambiamenti climatici, insieme alle conseguenze dello sviluppo urbano non controllato, sono al centro di un altro progetto innovativo presentato a Milano: FreetownTheTreeTown. La capitale della Sierra Leone è situata lungo una striscia di terra stretta tra l’oceano e i monti (c’è chi la paragona a Genova): questa caratteristica unita al forte incremento demografico della città ha avuto conseguenze disastrose sull’ambiente, con un completo disboscamento dell’area e tecniche di costruzione particolari che prevedono la sottrazione di terra al mare. Dal 2020 però è stato avviato un progetto ambizioso che potrebbe fare da modello ad altre città africane. Parlando con la rivista Africa, Eric Hubbard, direttore tecnico del progetto, ha ricordato come Freetown fosse stata progettata per ospitare 400 mila persone mentre oggi ha raggiunto 1,5 milioni di abitanti. La crescita demografica è coincisa con una massiccia deforestazione, per fare spazio alle case o servirsi del legno delle piante, con una conseguente perdita di biodiversità. “A partire dal 2011, la città ha perso ogni anno 555 ettari di terreni incolti, o più di 500.000 alberi” ha raccontato Hubbard. Senza alberi a fare da filtri e argini, la maggiore città del Paese, e la più densamente popolata dell’Africa occidentale, è diventata anche più vulnerabile agli eventi climatici estremi. Freetown è stata più volte vittima di alluvioni e smottamenti negli ultimi tempi. In un caso, nel 2017, le frane provocate dalle forti piogge hanno causato quasi mille morti.
FreetownTheTreeTown, ha spiegato Hubbard, fa parte di un piano d’azione quinquennale messo in campo dalla sindaca di Freetown, Yvonne Aki-Sawyerr, pensato per le comunità più vulnerabili ai cambiamenti climatici e co-progettato con loro. L’obiettivo è tanto semplice quanto ambizioso: piantare alberi, creare infrastrutture verdi, così da ridurre l’inquinamento e da ripristinare un equilibrio ecosistemico. Si è partiti con l’idea di piantare un milione di alberi entro il 2022 per aumentare del 50% la copertura forestale della città; si è passati presto a 7 milioni di alberi entro il 2030 e a 20 milioni entro il 2050. Di pari passo il progetto persegue l’obiettivo di ridurre del 14% le emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e del 45% entro il 2050.
La prima caratteristica del progetto è quella di essere interamente gestito dalla cittadinanza, che ne trae beneficio in diversi modi. All’interno di una comunità sono i membri stessi a decidere in quali luoghi piantare gli alberi dopo un lavoro di valutazione, ad essi è affidato il compito di monitorare e far crescere le piante e per questo sono ricompensate con un pagamento di 120 dollari tramite smartphone dopo ogni verifica trimestrale.
A finanziare il progetto è stata Banca Mondiale con 1,8 milioni di dollari, un altro milione è arrivato da Bloomberg Global Mayors Challenge. Ma questi soldi non sarebbero bastati. Alle spese vive del progetto in realtà ci pensano gli stessi alberi. Ogni albero è infatti verificato tramite una piattaforma digitale che lo trasforma in un token – un gettone – di impatto. “Il token” spiega Hubbard ad Africa “consente di monetizzare la pianta nel mercato privato o nel mercato volontario del carbonio, in un ciclo continuo di risorse aggiuntive che possiamo far circolare nuovamente nel processo di crescita”. Nei primi due anni dal suo lancio nel gennaio 2020, 560.000 alberi sono stati piantati, tracciati digitalmente e “tokenizzati”, con 578 ettari di terreno urbano dentro e intorno a Freetown ripristinati.
Questo circolo virtuoso non è stato costruito nello specifico su Freetown, ci tiene a precisare Hubbard. “In realtà è uno schema per le città con poche risorse in tutto il mondo e in particolare in Africa, per valorizzare il loro capitale naturale e costruirci sopra una strategia di investimento”.
Ha collaborato alla realizzazione dell’articolo Tommaso Meo.
Gianfranco Belgrano
Nato a Palermo nel 1973, Gianfranco Belgrano è un giornalista e si occupa soprattutto di esteri con una predilezione per l’Africa e il Medio Oriente. È direttore editoriale del mensile Africa e Affari e dell’agenzia di stampa InfoAfrica, per i quali si sposta spesso nel continente africano. Ha studiato Storia e Lingua dei Paesi arabi e vissuto per alcuni anni tra Tunisia, Siria e Inghilterra prima di trasferirsi a Roma. Ha lavorato o collaborato con varie testate (tra cui L’Ora ed EPolis) e si è avvicinato all’Africa con l’agenzia di stampa Misna, lasciata nel 2013 per fondare con alcuni amici e colleghi il gruppo editoriale Internationalia.