“L’Africa nutrirà il resto del mondo”: a colloquio con Akinwumi Adesina
Secondo il presidente della Banca africana di Sviluppo è tempo che il continente africano smetta di esportare solo materie prime e crei finalmente valore aggiunto. A partire dal cibo.
“Produrre materie prime non è abbastanza, è tempo che l’Africa passi in cima alle catene globali del valore alimentare, attraverso l’agroindustrializzazione. Il segreto della ricchezza delle nazioni è chiaro: le nazioni ricche elaborano tutto ciò che producono mentre le nazioni povere esportano i loro prodotti come materie prime”. In un discorso pronunciato lo scorso agosto alla Fao e ribadito poi in un’intervista al mensile Africa e Affari, il presidente della Banca africana di sviluppo (AfDB) Akinwumi Adesina è andato dritto al cuore del suo impegno, toccando uno dei tasti più delicati delle questioni africane, su cui c’è sì consapevolezza tra le dirigenze del continente ma allo stesso tempo ancora tanta strada da fare. Il punto è infatti quello di creare valore aggiunto, a tutti i livelli, ma partendo dall’agricoltura, settore strategico per eccellenza che oggi occupa la grande maggioranza della forza lavoro nei Paesi africani.
“Mentre la domanda e i prezzi delle materie prime sono elastici – ha aggiunto Adesina – quelli dei prodotti lavorati e a valore aggiunto sono meno variabili. Il prezzo del cotone può diminuire, ma mai il prezzo dei tessuti e degli indumenti. Il prezzo del cacao può diminuire ma mai il prezzo dei cioccolatini. Il prezzo dei chicchi di caffè potrebbe ridursi, ma non il prezzo dell’espresso al bar”.
Per Adesina, che in Nigeria in passato ha ricoperto proprio il ruolo di ministro dell’Agricoltura, la ricetta per cambiare questo quadro non è semplice, ma deve passare attraverso un cambiamento di prospettiva: “Perché l’agricoltura diventi un settore fondamentale per l’economia, credo che il discrimine sia cambiare le lenti con cui ci volgiamo all’agricoltura, il modo in cui finanziamo l’agricoltura, il modo in cui pensiamo e sviluppiamo politiche, per far sì che esse riescano a coinvolgere il settore privato in questo sviluppo”.
I numeri per ‘tentare’ il settore privato sono d’altra parte allettanti. Anzi, per molti versi, il futuro della sicurezza alimentare nel mondo dipende dalle modalità con cui l’Africa si muoverà. Secondo stime correnti in Africa si trova il 65% delle terre arabili finora non coltivate e che serviranno quando nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9 miliardi di individui. L’Africa ospita la più grande frontiera agricola che fronteggia il deserto ovvero 400 milioni di ettari di terra di cui soltanto il 10% è coltivata. Oltre alla disponibilità di terre, ricorda appunto Adesina, il comparto della trasformazione è ancora poco sviluppato. Se è vero che l’Africa produce il 75% del cacao consumato nel mondo (con Costa d’Avorio e Ghana che da sole ne producono il 65%) è altrettanto vero (dati AfDB) che riceve soltanto il 2% dei 100 miliardi di dollari generati ogni anno dall’industria dei cioccolatini. E questa dinamica si ripete di continuo su una lunga serie di prodotti: l’Africa produce materie prime che esporta in forma grezza, ricavandone le briciole.
Un processo di agro-industrializzazione, avviato già in alcuni Paesi, viene pertanto indicato come una possibile soluzione ma deve essere necessariamente unito alla realizzazione di infrastrutture di base che consentano di collegare i luoghi di produzione ai mercati. Attualmente, nella fase di raccolta e post raccolta, l’Africa perde quantità sufficienti a nutrire 350 milioni di persone all’anno e 350 milioni sono le persone che nel continente soffrono la fame. Allo stesso tempo importa dall’estero cibo per 35 miliardi di dollari all’anno, cifra che potrebbe raggiungere i 100 miliardi nel 2030. Per cambiare questo quadro gli investimenti infrastrutturali sono decisivi e le necessità si aggirano all’interno di una forchetta tra i 68 e i 100 miliardi di dollari all’anno: si va dall’energia, ai porti, alle ferrovie, alle strade, agli aeroporti, allo sviluppo delle varie filiere e della catena del freddo, alla logistica.
In questa visione, la Banca africana di sviluppo si è impegnata a versare 24 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni e grandi investimenti arriveranno anche da altre istituzioni internazionali, dalle agenzie di cooperazione, dai governi. Cruciale però rimane il coinvolgimento del settore privato per fare dell’Africa il granaio del mondo.
Oggi l’agricoltura nel continente è in larga parte condotta da piccoli agricoltori e anche la base produttiva, sostiene Adesina, deve essere riorganizzata per rendere più efficiente il settore e soprattutto aumentare i benefici per gli stessi produttori. L’Italia in questo ambito potrebbe trovare ampi spazi perché i suoi modelli globalmente riconosciuti (consorzi, cooperative, distretti) si basano proprio sulle piccole imprese e a questi i dirigenti africani guardano con interesse. Infatti, tornando alle parole di Adesina, in Africa “c’è bisogno di fare massa critica” cercando l’aggregazione, riorganizzando il settore con imprese che possano investire così da creare una catena di valore in grado di avviare processi di trasformazione e ottenere valore aggiunto. Un simile processo, sottolinea ancora Adesina, eviterebbe anche il rischio da più parti paventato del land grabbing: “Il continente ha una tale quantità di terra che è in grado di far convivere forme diverse di agricoltura, ottimizzandone le ricadute. Dobbiamo però smettere di romanticizzare la povertà (…). Ciò che dobbiamo fare è ampliare le possibilità di produzione dei piccoli agricoltori, rimuovendone i vincoli che li circondano – compreso un accesso limitato a tecnologie, mercati, infrastrutture, finanza – e fare dell’agricoltura la fonte del loro sostentamento, un settore che crea ricchezza, non un settore per perpetuare la povertà e la miseria intergenerazionale”.