Alla ricerca di una pace “giusta”
La pace senza giustizia è sinonimo di resa o è la ratifica dei rapporti di forza registrati sul campo di battaglia. Le riflessioni di Papa Francesco evocano un salto di mentalità che deve investire anche il fare diplomazia.
È un salto di mentalità. Una “rivoluzione” culturale prim’ancora che politica. Dalla “guerra giusta” alla pace giusta.. Questo salto di mentalità è illustrato nel messaggio di Papa Francesco per la celebrazione della 50esima Giornata Mondiale della Pace, il 1° gennaio 2017. “Il secolo scorso – annota Bergoglio – è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi.
Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”? La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti…”.
La pace non è assenza di guerra né può ridursi, come spesso e su vari quadranti mondiali è stato, alla ratifica dei rapporti di forza imposti sul campo di battaglia. La pace non è, o non dovrebbe essere, sinonimo di resa. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. Io credo che la pace sia instabile laddove agli esseri umani è proibito esprimersi, è tolto il diritto di parlare liberamente o venerare il Dio prescelto, viene impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze.
Promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un’azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell’indignazione. Ma so anche che le sanzioni che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta…”. E’ una parte del discorso che l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, pronunciò a Oslo, il 10 dicembre 2009, in occasione del ritiro del Premio Nobel per la Pace. Non è questa la sede né l’occasione per valutare quanto, nei suoi due mandati presidenziali, Obama sia stato fedele a questa importante riflessione. Fatto è che quelli che sono stati percepiti come i due grandi leader globali dei tempi attuali, Obama e Bergoglio, si siano cimentati con il tema epocale della pace giusta. Che per essere tale deve intervenire e incidere sulle cause che sono alla base del proliferare di crisi, conflitti regionali, disastri ambientali, crescita delle diseguaglianze tra i pochi che posseggono ricchezza e i Sud del mondo che ne sono espropriati.
Riflettendo su una intervista di Papa Francesco sul tema della pace giusta, Pierangelo Sequeri annota su l’Avvenire: “Non si tratta solo di portar fuori il tema della legittima difesa dal contenitore semantico obsoleto della guerra giusta. Si tratta anche di non lasciare spazio ad un pacifismo generico e retorico dello ‘stare in pace’. L’orrore della normalità con la quale si praticano la crudeltà (‘Oggi i bambini non contano!’) e la tortura (col pretesto della sicurezza e della deterrenza), indica chiaramente che la soglia è superata. E nessuno può, con nessun pretesto, voltarsi dall’altra parte. L’umanesimo della pace giusta non si sottrae all’impegno di un difficile discernimento, alla fatica di una vigilanza incessante, al sacrificio generoso della presenza e della testimonianza che rischiano di persona, per attestare la persuasività e l’efficacia del perseguimento di mezzi alternativi alla guerra…”.
Una pace giusta non contempla una verità assoluta, che nella Storia coincide il più delle volte con quella dei vincitori. E’ “giusta” una pace che riconosce i diritti dell’altro da sé. E che valorizza la parola “compromesso”. Scrive in proposito il grande scrittore israeliano Amos Oz: “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Una pace giusta parte da qui. Dalla lungimiranza del più forte, del generale che ha combattuto mille battaglie e proprio per questo è consapevole che la battaglia più difficile da vincere è quella per una pace giusta. Questa è stata la tragica grandezza di Yitzhak Rabin, il ministro della Difesa durante la prima Intifada che scandalizzò il mondo per aver giustificato i soldati israeliani che reprimevano brutalmente i giovani palestinesi lanciatori di pietre; ma era sempre il generale Rabin, diventato primo ministro d’Israele, a sbalordire il mondo accettando di stringere la mano al nemico di sempre, Yasser Arafat, perché la pace si fa con il nemico e con lui si apre un cammino di speranza. Rischiando tutto, compresa la propria vita. Perché la pace giusta non nasce da poeti o sognatori, ma da chi ha conosciuto le asprezze e gli orrori della guerra ed ha saputo non restarne succube.
La pace giusta ha bisogno di una visione che vada oltre la contingenza di un angusto presente, di leader che sappiano andare controcorrente, non piegandosi all’umore del momento, finendo per cavalcare insicurezze o alimentando sogni di grandezza, ma avendo chiara la meta da perseguire e i valori da preservare. La pace vera è quella che non confonde la giustizia con la vendetta. E’ la pace di un Grande della Storia: Nelson Mandela. Ricordo ancora, con emozione, l’intervista che mi concesse il compagno di una vita di Mandela nella lotta al regime dell’apartheid: Desmond Tutu, che con “Mandiba” condivise anche il Nobel per la Pace. Quando gli chiesi cosa fece grande Nelson Mandela, mi rispose così: “Non sono pochi nella Storia a essere ricordati come vincitori. C’è chi ha condotto rivoluzioni, chi ha sconfitto il nemico sul campo. Ma in pochi hanno saputo coniugare vittoria e giustizia. Nelson è tra questi pochi. Per questo, soprattutto per questo, è stato un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, a essere visto, accettato, come il presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell’appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c’è riuscito. Con Madiba non ho condiviso solo la lotta contro il regime dell’apartheid. Ciò che ci ha ancor più legati è stata l’idea, dalla quale è nata “La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita dall’allora primo ministro Nelson Mandela nel 1995, che operò dal 1996 al 1998, oggi presieduta da Tutu, ndr) è che fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono, la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Sono sempre stato convinto, e ciò non vale solo per il Sudafrica, che senza perdono non c’è futuro”. E’ questa la grandezza di una pace giusta e dei suoi facitori. E’ nell’immedesimarsi nel dolore e nella speranza, nelle rinunce e nelle aspettative del nemico che non è più tale.
La pace giusta non può essere imposta dall’esterno, non la si esporta con le armi; essa ha bisogno di consapevolezza, di conoscenza, di un dialogo dal basso, del saper ascoltare e non limitarsi a sentire. Se ci guardiamo attorno, limitandoci ad annotare le balbettanti esternazioni dei Grandi della terra, dovremmo concludere che non c’è seme di una pace giusta su questa terra. Ma se si scava più in profondità, se si guarda ai movimenti carsici che agiscono dentro le società, che resistono a regimi brutali in nome di principi universali, allora il quadro si fa meno scuro, e la speranza torna a fiorire.
La pace giusta non è una utopia, ma un sano principio di realtà. E questa idea di pace è il filo conduttore degli articoli di Oltremare, che spaziano dalle aree più disagiate del pianeta ai grandi temi che segnano il presente e ipotecano il futuro, dall’ambiente alle risorse idriche, dalla faglia sempre più larga e profonda trai Nord e i Sud del mondo ai conflitti armati che insanguinano il presente. Dai vari contributi emerge l’impegno al cambiamento, dall’emergenza, oltre l’emergenza. È un work in progress che unisce idealità e concretezza, intervento internazionale e crescita di esperienze, e professionalità, interne ai vari Paesi d’intervento. E’ il “made in Italy” dell’Aiuto allo sviluppo, un tratto identitario che non va smarrito. La pace giusta è anche questo.