Per una globalizzazione dal volto umano
Una globalizzazione dal vlto umano. È questo il messaggio ispirato dagli articoli che appaiono questo mese su Oltremare e che prendono spunto dal recente World Economic Forum di Davos. Lo scrive alla fine del suo pezzo Umberto De Giovannangeli dopo aver fatto una disamina del rapporto di Oxfam International pubblicato in concomitanza al Forum e dedicato alle disuguaglianze crescenti tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo.
Un rapporto pesante da leggere, perché mette a nudo le criticità del sistema in cui viviamo e operiamo. Che dà quasi fastidio perché rimette in discussione, perché fa vedere cose che chi vive nella parte ‘felice’ del mondo prova a far finta che non esistano: siano queste ‘cose’ la povertà estrema, la fame, le malattie o le 68,5 milioni di persone che secondo l’Unhcr sono state costrette a fuggire e sono oggi sfollati interni, rifugiati o richiedenti asilo a causa di guerre, emergenze, devastazioni di ogni tipo.
Vi racconterò una breve storia che forse può aiutare a capire il tema della globalizzazione.
Qualche tempo fa, mi trovavo in Sudan, a nord di Khartoum. Posti magnifici, animati dal Nilo che scorre in mezzo a regioni semiaride, costellate delle antiche vestigia di civiltà che qui prosperarono. E non lontano da Meroe e dalle sue affascinanti piramidi, ebbi la fortuna di poter visitare un sito archeologico della stessa civiltà (parlo del regno di Kush e di un periodo compreso tra l’800 a.C. e il 350 d.C.) semi-abbandonato. A guardia di magnifici leoni posti l’uno di fronte all’altro davanti a quello che sembrava un tempio, c’era un uomo, che pensai subito fosse un pastore del posto in attesa di ricevere una mancia per lasciare passeggiare tra quelle rovine i radi visitatori. Restai invece a bocca aperta quando quel signore segnato dal tempo, quasi provato nel fisico da un clima estremo, tirò fuori da un cassetto scassato un terminale elettronico (un pos per intenderci) che collegò al suo smartphone, anche quello comparso da chissà quale angolo, dandomi ricevuta del pagamento e biglietto di ingresso.
Ascoltando gli interventi di Davos e rielaborando il tema di questa edizione – Globalizzazione 4.0: modellare un’architettura globale nell’epoca della quarta rivoluzione industriale – mi è tornato in mente proprio questo ricordo sudanese. Di certo a quel pastore-bigliettaio delle rovine di Meroe saranno mancate una serie di cose, di beni e servizi essenziali; eppure quel pos e quel telefonino di ultima generazione, collegati tra di loro grazie a una App pensata per stampare biglietti di ingresso a zone archeologiche, lo rendeva innovativo, al passo con i tempi, globale all’ennesima declinazione. Curioso, no?
Dando un’occhiata in giro, per quarta rivoluzione industriale generalmente si intende quella rivoluzione – e qui abbondano i termini in inglese – che è fondata sull’innovazione digitale nei processi dell’industria. Da qui si capisce come mai tante imprese e governi oggi stiano investendo nell’Internet delle cose, nei Big Data, nel Cloud Computing, nei sistemi di produzione automatizzati, nei dispositivi wearable, nella stampa 3D, nelle interfacce uomo/macchina.
Il nostro pastore sudanese probabilmente non ha mai sentito parlare di quarta rivoluzione industriale, ma ne sta utilizzando gli strumenti senza per certi versi aver sperimentato a pieno le tre precedenti rivoluzioni. E la stessa dinamica è riscontrabile in molti altri Paesi poveri o in via di sviluppo.
Basta fare poca strada per andare indietro nel tempo. Nel caso specifico, dopo quel biglietto acquistato in mezzo al nulla e aver visitato quelle splendide rovine, è bastato fare una decina di chilometri per attraversare i campi fertili che accompagnano il Nilo, dove di diavolerie 4.0 non c’era più traccia mentre davanti agli occhi scorrevano le stesse immagini di tremila anni fa: asini e carretti, contadini al lavoro con la sola forza delle braccia e solo qualche pompa idraulica immessa sul fiume a ricordare l’epoca in cui in realtà ci troviamo.
Ora, accettando l’ipotesi che la globalizzazione non sia un fenomeno passeggero ma una forza inarrestabile e il fatto che l’obiettivo generale di un essere umano è di migliorare la propria vita e quella della società in cui vive e opera, non possiamo non attestare che in effetti l’umanità nel complesso, grazie alla globalizzazione, stia facendo continui e notevoli progressi e stia raggiungendo traguardi mai tagliati prima. Eppure nelle nostre considerazioni dobbiamo includere un dato che complica non poco la situazione: numeri alla mano, le disuguaglianze tra ricchi e poveri sono in aumento, così come il gap tra Nord e Sud del mondo appare esso stesso in crescita.
“Bisogna ridefinire l’idea di sviluppo, rispettando le identità” afferma Padre Yameogo nell’intervista concessa a Vincenzo Giardina. Anzi, sottolinea questo sacerdote originario del Burkina Faso e da 10 anni voce del dicastero della Comunicazione della Santa Sede, i Paesi poveri possono aiutare i ricchi (l’Occidente) a riscoprire “il senso della solidarietà, dell’umanesimo e del rispetto del Pianeta”. Già, il rispetto del Pianeta e quindi di noi stessi. Perché alla fine di questo si tratta, ricorda Emanuele Bompan nel suo articolo: c’è l’Accordo di Parigi sul clima e c’è nonostante tutto un interesse crescente delle corporation a prendere in seria considerazione le questioni ambientali. Ci dovrebbe essere di conseguenza un interesse comune a rispettare il Pianeta e gli esseri viventi che lo popolano perché, in fin dei conti, stiamo parlando di noi stessi.
In questo teorema della vita 4.0, pertanto, la dimostrazione dei fatti rende molto più cauti sul nesso globalizzazione-maggiore e diffuso benessere: sviluppo sostenibile, pari opportunità e via dicendo, seppure sintetizzati in documenti chiave come l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, sembrano ancora elementi astrusi, obiettivi non raggiunti, finalità ancora da perseguire. Ritornando ancora a Padre Yameogo, sembra più che mai necessaria “una globalizzazione inclusiva, sostenibile e basata su principi morali: sulla priorità, cioè, della persona e di tutta la famiglia umana”.