Destinazione Garbage Patch State : l’arcipelago di plastica raccontato dall’artista Cristina Finucci
www.garbagepatchstate.org
Oltremare ha incontrato Cristina Finucci, designer e architetto che, con l’arte, fa conoscere l’enorme arcipelago di plastica galleggiante che ha cambiato la geografia della Terra. Con il progetto transmediale Wasteland le sue installazioni trasformano la plastica in arte. E consapevolezza.
Si chiama Garbage Patch State l’arcipelago di sedici milioni di chilometri quadrati di plastica che galleggia nei nostri oceani. Una “Terra desolata”, come l’ha definita l’artista Cristina Finucci evocando Thomas Eliot, quando ha ideato Wasteland, progetto transmediale nato nel 2012 con il sostegno di UNESCO e Ministero dell’Ambiente italiano.
Installazioni, performance, video per rendere tangibile uno dei più drammatici problemi ambientali del pianeta. Obiettivo: renderci consapevoli delle cause di un fenomeno che è strettamente connesso ai nostri comportamenti quotidiani.
Nel 2013, nella sede Unesco di Parigi, questa immensa ‘isola’ di plastica ha ottenuto il riconoscimento istituzionale di stato federale con capitale Garbaland, una costituzione e una bandiera. Cristina Finucci ne è la presidente.
1. Quando e come nasce l’idea del Garbage Patch State Project?
C’è stata una fase preparatoria prima del debutto ufficiale del progetto nel 2013.
Fino ad allora mi ero focalizzata sulla fisica quantistica: volevo far vedere ciò che è invisibile ai sensi e questo tema mi attirava molto. Le isole di plastica nel mare infatti sono invisibili, la plastica diviene trasparente e si confonde con il plancton e con i bagliori dell’acqua tutto è invisibile, perfino per i satelliti. Si creano dei vortici che girano e lambiscono le coste raccogliendo la plastica che è raccolta nei fiumi e fanno un percorso molto lungo che dura anche 4 o 5 anni. Poi la plastica si disgrega, si mescola all’acqua e non si vede più. Il problema è enorme ma invisibile, quindi difficile da comunicare perché non ha una vera e propria immagine. Eppure occupa 16 milioni di chilometri quadrati questo “stato” di plastica, è profondo più di trenta metri ed è grande quasi quanto la Russia. Ho cercato di interpretare questa immagine, quindi non in maniera realistica ma con la creatività e la fantasia dell’artista: volevo dare un’idea di questo stato per suscitare interesse nel pubblico e far sì che le persone si informassero e prendessero coscienza del problema, il presupposto indispensabile per agire attivamente e mobilitarsi per contrastare il fenomeno.
2. Ormai Garbage patch è uno stato a tutti gli effetti e tu ne sei la presidente: quanto conta questo riconoscimento che, al di là di quelli strettamente artistici, proviene dalle massime istituzioni internazionali?
Non ho un metro per capire quanto conti, però sono molto soddisfatta di vedere quanto adesso si parli del problema rispetto agli anni in cui ho iniziato, quando ancora erano pochissime le persone a conoscenza del fenomeno della plastica negli oceani. Nel campo delle istituzioni, proprio all’UNESCO di Parigi ho presentato per la prima volta nel 2013 l’installazione a forma di isola con una performance che dava vita ad uno stato simbolicamente riconosciuto dalla Direttrice Generale Irina Bokova e denominato appunto “Garbage Patch State”.
In occasione dell’Earth day dell’anno scorso, come capo di stato, ho firmato l’Agenda 2030, controfirmata poi dal ministro dell’ambiente Galletti e da Enrico Giovannini di Asvis.
Inoltre un frammento dell’installazione che ho presentato al Foro Romano nel 2018 è stato inserito nella recentissima collezione di arte contemporanea del Quirinale.
3. E poi c’è da ricordare l’esposizione a Ca’ Foscari in occasione della Biennale di Venezia, Expo 2015 a Milano, Cop 21 a Parigi: tutte queste performance hanno riscosso l’attenzione trasversale del mondo dell’informazione, non solo quella di settore.
Sì soprattutto dopo l’evento con Unesco a Parigi e quello a Venezia c’è stata molta attenzione della stampa, della radio e della televisione, che va ben oltre quella specializzata di settore. Questo mi ha permesso di arrivare a un pubblico molto più ampio a cui ho potuto far conoscere le mie installazioni e quindi il Garbage Patch State. Dissemino nel mondo indizi dello Stato da me fondato, proprio per crearne un’immagine che sia nella testa della gente, che abbia una riconoscibilità simbolica e ben identificabile.
4. L’isola di plastica è fatta di tappi, bottiglie, buste, scarpe, piatti e bicchieri, finiti nel mare nell’ultimo mezzo secolo. Proprio i tappi delle famigerate bottiglie di plastica sono la materia prima della tua creazione artistica: in che modo?
Perché non li considero spazzatura ma una risorsa, perché ci sono persone che hanno recuperato, con un gesto virtuoso, il materiale per portarlo all’università di Roma Tre o di Palermo che hanno dei centri di raccolta. Questi tappi vengono messi uno ad uno in apposite reti che vengono poi cucite e lavorate con grande impegno. C’è un lavoro collettivo dietro a questi sei milioni di tappi a cui un gruppo di persone ha dato un’altra vita e un altro significato. Per questo non è spazzatura per me, ma una risorsa … la plastica si può riutilizzare.
5. E poi è arrivata l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco e allora la “cura del Creato” ha arricchito di prospettive l’ispirazone artistica….
Sì, ho capito che il mio progetto rientrava perfettamente nel messaggio di Papa Francesco che pone l’accento sulla cura del Creato e sulla nostra responsabilità verso il mondo. Un invito a una “conversione ecologica” dell’umanità per salvare questa Terra, maltrattata e saccheggiata. Un impegno che include anche lo sradicamento della povertà, l’attenzione agli ultimi, l’accesso equo, per tutti, alle risorse del Pianeta.
Ho pensato che la plastica fosse il fattore di un fenomeno ben più ampio e complesso di degrado ambientale in cui tutto è collegato perché è connesso ai cambiamenti climatici, alla desertificazione che porta fame, povertà, conflitti ed infine migrazioni. Un cerchio che si chiude e va considerato in chiave olistica dove la “cura del Creato” è la cornice e l’obiettivo ultimo da raggiungere. Ho pensato quindi a qualcosa che visivamente rappresentasse il grido di aiuto di Madre Terra. Perché l’uomo ha sempre dovuto difendersi dalla natura, ma oggi è la natura che deve difendersi dall’ uomo.
6. E arriviamo così all’installazione più recente, che si ispira appunto al grido di aiuto del Pianeta: come nasce “Help, l’età della plastica “?
Nasce in Sicilia, all’isola di Mozia dove avevo visto le stupende rovine del sito archeologico e mi sono chiesta: cosa troverà un archeologo del futuro su questa isola tra mille anni ?
La risposta è scontata: gli artefatti indistruttibili della civiltà della plastica. Quindi ho tracciato parallelamente ai siti archeologici, una specie di città di 3.600 metri quadri, disponendo dei gabbioni costituiti da tappi di plastica, in forme assimilabili a quelle degli antichi reperti. Di notte questa installazione diventava luminosa perché all’ interno della massa dei tappi c’erano luci a led. Nella mia storia però, l’ipotetico archeologo affacciandosi all’oblò della sua astronave capisce che quella che aveva scambiato per una città, era invece la scritta HELP, un grido di aiuto, un messaggio per l’uomo del futuro, un’enorme natura morta segno di una civiltà passata. Ho poi riproposto Help ai Fori imperiali di Roma, nella città che un tempo governava il mondo. Vista di notte quella luminosità sembra lava infuocata e per creare questo effetto di incandescenza ho lavorato molto sulla ricerca con l’Università Roma Tre. Non volevo una luce fredda, volevo che apparisse come una ferita sanguinante inferta dall’uomo al pianeta. Abbiamo quindi usato led riflettenti e gelatine che hanno creato questo effetto particolare che, da lontano sembra lava … è una ricerca tecnica che però non è fine a se’ stessa ma è funzionale all’arte. Ho cercato di dare una sensazione di sofferenza del pianeta perché l’opera d’arte deve toccare il cuore, trasmettere sensazioni anche alla nostra parte irrazionale. Comunicare con le persone facendo nascere nuove emozioni è importante perché il mio progetto comunica a livello non verbale per creare consapevolezza, coinvolgimento e sollecitare le persone a comprendere il problema e ad agire di conseguenza.
Così l’arte riesce a fissarsi nella memoria collettiva dell’umanità per salvare e condividere un passato comune di cui non dobbiamo disperdere le tracce.