La tutela dei minori nel mondo dei media
Complessità e incertezze in un sistema in continua evoluzione e cambiamento: l'intervento del professor Massimiliano Padula per Oltremare.
Il rimando etimologico della parola “tutela” è tuèri, un verbo latino polisemico. Può significare semplicemente “guardare” nel senso dell’osservazione e della contemplazione. Oppure esprimere l’azione di vigilare e ispezionare. O ancora indicare l’atto della difesa, del guardarsi da qualcuno o da qualcosa. Un ultimo significato rinvia a una dimensione positiva e generativa, ossia al prendersi cura dell’altro. Questo ventaglio di definizioni esplicita le diverse applicazioni concettuali e pratiche che la nozione di tutela ha assunto nel corso del tempo, riferendosi via via a diversi ambiti dell’agire umano. Una madre tutela i suoi figli, le istituzioni tutelano i cittadini, una azienda tutela i suoi dipendenti. Sono queste, alcune delle espressioni entrate nel linguaggio comune che spiegano la tutela come uno dei bisogni essenziali del vivere sociale. Può essere usata negli spazi relazionali primari (in famiglia, tra amici) o in quelli secondari come organizzazioni o gruppi di individui più complessi e formali. Essa è, inoltre, uno degli asset del processo di socializzazione: l’individuo fa esperienza del mondo anche attraverso quella che il sociologo Talcott Parsons definiva “omeostasi”, ossia la ricerca continua dell’equilibrio di fronte alle perturbazioni e alle incertezze dell’ambiente sociale.
I media e la tutela
Nell’ultimo secolo e mezzo il nostro esistente è diventato sempre più caotico e plurale. Industrializzazione, mobilità, interculturalità sono stati i tasselli del macro mosaico che definiamo società moderna. Il Novecento è anche il secolo dei media, degli artefatti tecnici che riposizionano le nostre identità, non soltanto potenziando i sensi o accorciando le distanze, ma, soprattutto, destrutturando certezze e allargando spazi di conoscenza e interpretazione. I media moderni (fotografia, cinema, radio e televisione) infatti, si propongono come nuovi interlocutori, come opportunità di rappresentazione e schemi simbolici nuovi perché noi decodifichiamo il circostante attraverso le loro immagini e narrazioni. Se da un lato questo processo offre straordinarie occasioni, dall’altro può determinare cortocircuiti, paure e, di conseguenza, destabilizzare certezze date per acquisite. Essi, in molti casi, sono stati percepiti come minacce, come strumenti plasmanti le menti e i cuori, come propagatori di odio e violenza. La tutela, pertanto, è stata considerata l’arma più efficace per non sottomettersi al loro (presunto) potere. Il contrattacco ha assunto molteplici configurazioni. È nata la censura, sono state promulgate leggi, sono nate associazioni la cui mission primaria è quella di tutelare gli spettatori da contenuti mediali moralmente discutibili, si sono costituiti organismi istituzionali che hanno il compito di vigilare e sanzionare i produttori, si è sviluppata una disciplina di studio e di ricerca ad hoc, chiamata media education. Questo macrocosmo tutelatorio ha indubbiamente funzionato. Tra gli esempi virtuosi si possono citare: il parental control, il bollino rosso, le campagne di sensibilizzazione, l’introduzione di policy pubbliche specifiche. Ma, proprio quando la “tutela dai media” sembrava ormai essere un apparato legittimato, sicuro della proprie regole e formati, ecco che la società viene investita e scossa da una nuova prospettiva socio-culturale: il digitale.
“Da tutelarci dai media” a “tutelare i media”
La cultura digitale nel suo essere convergente, partecipativa, nel fare emergere nuovi formati produttivi, distributivi e di consumo, opera un’evidente ri-mediazione e ri-significazione del concetto di tutela. Abituati da sempre a considerarla in chiave strumentale e critico-valutativa (tutelarci dai media perché sono cattivi), oggi la tutela risente del processo di digitalizzazione fino a evaporarsi. Se ci chiedessimo, ad esempio, come si fa a tutelare un giovane dalle insidie presenti su un social network, la risposta non sarebbe certamente semplice. Potremmo attribuire la responsabilità alle piattaforme digitali, oppure puntare sull’educazione ai pericoli delle Rete o, ancora, fare pressione su governi o istituzioni internazionali per porre dei limiti tecnici di accesso. Nonostante le buone intenzioni e anche qualche risultato, l’efficacia di queste metodi sarebbe ristretta. I media, infatti, nella loro declinazione digitale, tendono sempre più a de-tecnologizzarsi, a naturalizzarsi, a far emergere la nostra umanità. I media siamo (diventati) noi, perché nei social e personal media, ci rappresentiamo e raccontiamo, costruiamo relazioni, diffondiamo idee. In una sola espressione, nei media proiettiamo la nostra umanità fatta di bellezza, giustizia, rispetto, ma anche di oscurità, di odio, di ingiustizia. Per questo motivo, diventa necessario invertire la logica: da tutelarci dai media a “tutelare i media”, ovvero liberarci dalle tentazioni del normocentrismo, dagli sbilanciamenti negativi, dagli sterili protezionismi, e rifarci carico di un compito tanto difficile quanto stimolante: assumerci la responsabilità di ciò che i media sono e possono essere in termini di produzione, condivisione e affermazione di contenuti.