La Violenza contro le Donne nella Giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
A partire dagli anni Novanta, grazie soprattutto alla proliferazione degli strumenti per la tutela dei diritti umani, la violenza contro le donne ha cessato di essere un fenomeno ascrivibile esclusivamente alla sfera domestica ed è finalmente diventato 'pubblico'.
Questa evoluzione ha portato alla luce gli obblighi esistenti in capo agli Stati, specialmente in merito a due aspetti fondamentali e chiaramente connessi tra loro, i.e. la prevenzione e la repressione degli atti criminali di violenza contro le donne. Sempre più rilevante in tale ambito è stato il contributo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte Edu) che attraverso una serie di pronunce ha chiarito come interpretare i così detti obblighi positivi discendenti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). Tali obblighi, che impongono agli Stati di esercitare la dovuta diligenza al fine di tutelare l’integrità psico-fisica di individui minacciati da atti criminali compiuti da terzi, vengono in rilievo ogni volta che le condotte in esame sono commesse da privati, e non da organi statali.
La Corte Edu nel caso Osman c. Regno Unito (1998) ha elaborato un ‘test’ per definire la portata degli obblighi positivi dello Stato, stabilendo che la responsabilità a titolo omissivo dello Stato per violazioni dell’Articolo 2 Cedu (diritto alla vita) sorge qualora “le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere dell’esistenza di un rischio reale e immediato alla vita di un individuo determinato e le autorità non hanno fatto quello che potevano fare e quello che si può ragionevolmente aspettarsi da loro per eliminare tale rischio” (§ 116). L’applicazione di tale formula alle ipotesi di violenza contro le donne, e in particolare di violenza domestica, è avvenuta per la prima volta in occasione del caso Opuz c. Turchia (2009). In Opuz la Corte Edu ha meglio definito il suo approccio nei confronti degli obblighi positivi in virtù delle peculiari caratteristiche dei casi di violenza domestica, stabilendo per esempio che la responsabilità dello Stato sorge se si dimostra che l’attuazione di misure ragionevoli avrebbe avuto una possibilità reale di cambiare il corso degli eventi o di attenuarne il danno (§ 136).
Per quanto riguarda l’Italia, innanzitutto rileva ricordare che il nostro Paese rientra tra gli Stati Parte della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) e che pertanto ha adottato diverse misure legislative per trasporre gli obblighi riportati nella Convenzione – l’unico trattato sui diritti umani a delimitare i contorni della responsabilità dello Stato anche per violazioni di obblighi positivi (Art.5) − nel quadro normativo nazionale.
Due casi concernenti gli obblighi positivi dell’Italia in materia di violenza contro le donne sono stati recentemente portati all’attenzione della Corte Edu. Nel primo caso, Rumor c. Italia (2014), la Corte Edu non ha ravvisato alcuna violazione della Cedu, anzi non solo la Corte ha rilevato che la legislazione nazionale è conforme agli standard internazionali, ma anche che le autorità vi hanno dato attuazione correttamente, agendo prontamente a seguito delle denunce presentate dalla ricorrente nei confronti del compagno violento, arrestandolo e condannandolo ad un periodo di carcere per le violenze commesse. A distanza di pochi anni, la Corte Edu è stata chiamata a pronunciarsi su un altro caso in materia di violenza domestica, Talpis c. Italia (2017), giungendo questa volta a conclusioni completamente diverse. Con la sentenza in esame la Corte ha rilevato la violazione di tre Articoli della Cedu, 2, 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione). La Corte ha ritenuto che il comportamento tenuto dalle autorità italiane si sia attestato sotto la soglia della diligenza imposta dalla Cedu poiché, omettendo di agire tempestivamente dinanzi alla denuncia della ricorrente, vittima di violenza domestica, e di condurre il relativo procedimento penale, le autorità hanno determinato una situazione di impunità, che ha favorito la reiterazione delle condotte violente, fino al tentativo di omicidio della donna e all’omicidio del figlio della stessa. Discostandosi dalle pronunce precedenti e dai parametri individuati e applicati dal caso Osman in poi, la Corte, riconoscendo la peculiare condizione di vulnerabilità della vittima, ha esteso la portata degli obblighi positivi in capo allo Stato, richiedendo un intervento anticipato al momento dell’iniziale profilarsi del rischio e non già nell’immediatezza dell’evento lesivo. In conclusione, per contrastare efficacemente la violenza contro le donne ed in particolare la violenza domestica, gli Stati devono adoperarsi per garantire il rispetto degli obblighi positivi, che non si esauriscono attraverso la adozione di un quadro normativo adeguato, ma coprono una vasta gamma di misure anche di ordine pratico e assistenziale da implementare tempestivamente.