Non perdiamo di vista l’obiettivo: riflessioni sul cambiamento
Partendo dalle schicce della nonna e dal valore della memoria, alcune considerazioni sull'importanza del monitoraggio e della valutazione dei benefici nei progetti di cooperazione perché "verificare che le attività portino cambiamenti è l’unica ragione che dà un senso allo spendere i soldi"
Mia nonna faceva le schicce, delle frittelle che preparava non solo con acqua e farina come vuole la ricetta varzese, ma aggiungendo fiori di sambuco lasciati a bagno in un poco di latte e credo qualche goccia di essenza di arancio o limone. La ricetta si è persa, e io ne ricordo soltanto un sapore squisito che mio figlio non assaggerà mai. Provai una sensazione simile, quando Nadia mi raccontò dell’esperienza che stava seguendo presso il castello baronale di Riano, alle porte di Roma, riguardo un progetto di musealizzazione della memoria e della cultura locale. Nel riflettere insieme a lei sulla corretta formulazione dell’obiettivo di quel bel progetto, ripensai al significato della perdita delle tradizioni, e sentii in bocca il sapore delle schicce di mia nonna.
Che cosa abbiano in comune una ricetta di cucina e un museo appare a tutti evidente ed è l’importanza della memoria, ma meno evidente è il perché sia data loro tanta importanza in queste pagine. La differenza tra fare un museo ed impedire che parte della nostra cultura si perda, riassume bene la dicotomia che si trova a dover misurare chi si accinge a fare monitoraggio o valutazione: quella tra attività (ciò che viene fatto) e obiettivi (i benefici che ne derivano), differenza questa tanto difficile da far capire a chi si cimenta nel difficilissimo compito della progettazione e a chi voglia comprendere nel profondo quali siano le sfide insite in un reale Result based management.
A volte valutare gli obiettivi di un progetto, al di là delle attività pianificate o realizzate, appare impossibile semplicemente perché tali obiettivi nei testi di progetto non appaiono. Mancano di fatto come concetti chiari e ben definiti. In molti progetti si cerca semplicemente di ripetere negli obiettivi, le priorità dei bandi per compiacere maggiormente gli enti finanziatori, oppure, come avviene nella maggior parte dei casi, gli obiettivi ricalcano le attività principali. La difficoltà di capire quali siano i veri obiettivi, che, chi fa valutazione sperimenta spessissimo quando deve esprimersi sulla efficacia di un progetto, mi spinge a riflessioni apparentemente teorico filosofiche, ma in realtà estremamente pragmatiche e con implicazioni di enorme portata sia operativa sia morale.
Parlando di interventi di sviluppo, ritengo che anche un progetto scritto malissimo e formulato senza la conoscenza del più elementare gergo richiesto dagli enti finanziatori, possa essere un ottimo progetto purché sia concepito e realizzato con la volontà di migliorare, attraverso azioni determinate, situazioni di sofferenza o disagio di gruppi umani o singoli individui. Ricordo a questo proposito la “olla popular” organizzata autonomamente a Bogotà da umili famiglie di quartieri poverissimi per accogliere con un pasto caldo, altre famiglie ancora più povere sfollate dalle zone di violenza e giunte nella capitale senza un soldo in tasca. Progetto bello e sostenibile non certo formulato con gli strumenti della Unione Europea o delle Nazioni Unite. Qui il motore di partenza era proprio la volontà di alleviare le sofferenze iniziali dei nuovi arrivati nei quartieri di estrema periferia, non quello di vincere un bando. Molto più spesso i progetti nascono piuttosto con la logica dell’assalto alla diligenza: spinti cioè dalla presenza di finanziamenti e dall’affanno di aggiudicarseli. Il beneficio per i beneficiari viene cercato come ultimo passaggio logico della fase di formulazione, o come conseguenza logica e postuma di attività che si era già deciso di fare. Anche gli stessi bandi descrivono, quasi sempre, i propri obiettivi mediante una sfilza di azioni finanziabili.
Formulare gli obiettivi di un progetto senza prima decodificare, toccare, sentire dentro di sé la sofferenza dei destinatari dello stesso è equivalente a voler descrivere un luogo senza averlo mai visto, o a voler fare la critica di un libro che non si è letto o di un concerto che non si è mai ascoltato. Ecco i Pcp, Piece of Cake Projects, i progetti “distribuzione di fette di torta”.
Vorrei contrapporre, con energia, l’analisi delle soluzioni e delle attività all’analisi delle loro radici. Bisogni versus disagi, fette di torta versus obiettivi, needs against people. Forse il vero contraltare ai fabbisogni concepiti come liste della spesa, sono proprio semplicemente le persone; ma, e qui sta la grande differenza, intendo le persone prima di trasformarsi e distorcersi in portatori di needs, prima di diventare liste ambulanti di soluzioni e cose da fare o da acquistare. Persone come sono realmente con le loro frustrazioni e i loro disagi a monte di ciò che si potrebbe fare per alleviarli. Questa differenza temporale appena accennata e sottolineata è il segreto per avere dei problemi di qualità e, di conseguenza, degli obiettivi e dei progetti la cui efficacia sia monitorabile e valutabile.
Realizzare le attività, una volta ricevuti i finanziamenti, non è la sfida che conta, mentre verificare che le attività portino cambiamenti è l’unica ragione che dà un senso allo spendere i soldi ed è precisamente ciò che, non tutti, si premurano di voler misurare. Allora forse, dopo mezzo secolo di fallimenti, elefanti bianchi e scatole vuote, è veramente giunto il momento di iniziare a valutare i benefici che si ottengono oltre alle azioni che si fanno e ai soldi che si spendono.
Gli interventi sono autoreferenziali e i beneficiari che si dovrebbero aiutare si perdono lasciando il posto ai veri beneficiari del nuovo millennio: i partenariati stessi che realizzeranno l’intervento e che ne hanno dato origine con le loro schiere di consulenti. Il coinvolgimento del settore privato si è trasformato, da mezzo per facilitare il raggiungimento o la sostenibilità degli obiettivi, nell’obiettivo stesso del progetto. Nascono e prosperano i “progettifici”, ed è per loro stessi che, troppo spesso, si fanno i progetti.
Credo che abbia poco senso parlare di monitoraggio e valutazione se non ci si pongono domande del tipo: perché si fanno i progetti? Cosa ci interessa maggiormente monitorare e valutare? Che cosa indica il successo di un progetto, come faccio a sapere se l’ho raggiunto e a chi dovrebbe interessare raggiungerlo? Quali sono le cose veramente importanti, quelle che davvero contano nei processi di cambiamento? Domande che si danno spesso per scontate, sulle quale sono subito tutti d’accordo, ma che sono altrettanto spesso assenti nel Dna di chi gestisce i progetti o di chi decide di valutarli.
Andrea Stroppiana
Economista, docente all’Università La sapienza di Roma e presso alcuni master internazionali, si occupa di cooperazione, monitoraggio e valutazione da più di 25 anni. Dal 2020 affianca l’Agenzia Italiana Cooperazione allo Sviluppo (Aics) sulle tematiche del mainstreaming ambientale negli interventi di cooperazione come consulente esterno di Sogesid Spa, in house del Mase (ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica. È autore di Monitoraggio e valutazione di azioni per il cambiamento. Un approccio result based valido per ogni settore, con focus sui progetti di lotta alla povertà e all’esclusione sociale (Franco Angeli editore)