Sotto la punta dell’iceberg: sulla cancellazione del debito africano
Lezioni dalla storia e il ruolo delle istituzioni finanziarie ed economiche internazionali
È impressionante come la memoria collettiva sia selettiva: nonostante il problema del debito estero insostenibile si sia già ripresentato varie volte negli ultimi decenni, infatti, si riesce a dimenticare la storia o, peggio, si finge di dimenticarla. Sul finire degli anni Ottanta, sotto l’impulso di Alex Langer, si costituì in Italia la ‘Campagna Nord-Sud: Biosfera, Sopravvivenza dei popoli, Debito’, per trasformare il debito estero del Terzo mondo in un comune debito ecologico, mettendo in discussione principi, determinanti e conseguenze della crisi debitoria, collegando problemi debitori a crisi ambientale e ingiustizia.
Nel 1990 fui ospite dell’Università dello Zambia per un semestre. Un tema politico fondamentale allora per quel Paese e il resto del continente africano era quello delle condizionalità macroeconomiche – imposte da un decennio dal Fondo Monetario Internazionale coi piani di stabilizzazione e dalla Banca Mondiale coi programmi di aggiustamento strutturale – legate al mantra neoliberista della deregolamentazione, liberalizzazione commerciale e finanziaria e privatizzazione. Il vincolo della dipendenza dai crediti internazionali e le difficoltà nell’onorare i termini di pagamento degli oneri debitori furono il motivo ricorrente in tutto il continente e non solo.
Qualche cifra di allora, utilizzando i dati del Fondo Monetario Internazionale: da una stima di 8 miliardi di dollari nel 1970, il debito estero totale dei Paesi africani (esclusi gli arretrati) salì a circa 174 miliardi di dollari alla fine del 1987, compreso il debito a breve termine stimato a 12 miliardi di dollari. Misurato in dollari statunitensi costanti (1980), il debito totale dell’Africa alla fine del 1987 era quasi sette volte e mezzo il livello del 1970.
Il totale dei pagamenti del servizio del debito dei Paesi africani passò da meno di 1 miliardo di dollari nel 1970 a quasi 18 miliardi nel 1987, al netto degli arretrati e delle misure di cancellazione del debito già adottate. Il rapporto tra i pagamenti del servizio del debito e le esportazioni di beni e servizi passò in Africa da una stima dell’8 per cento nel 1970 al 33per cento nel 1987, sempre al netto della rinegoziazione e degli arretrati. L’indebitamento totale in proporzione alle esportazioni di beni e servizi aumentò dal 73 per cento alla fine del 1970 al 322 per cento alla fine del 1987. Il rapporto tra il debito estero totale e il Pil passò dal 16 per cento alla fine del 1970 al 70 per cento alla fine del 1987.
Negli seconda metà degli anni Ottanta furono adottate diverse iniziative di riduzione del debito estero di Paesi altamente indebitati, con un particolare attivismo del G7, soprattutto degli Stati Uniti, e il coinvolgimento di crediti bancari contro la minaccia di insolvenza sul sistema bancario internazionale (Piani Baker e Brady). Il problema dell’indebitamento estero dei Paesi in via di sviluppo fu però ben lontano dal potersi dire risolto.
Le drammatiche conseguenze, in termini sociali, economici, politici ed ambientali, del debito estero erano già allora purtroppo note, soprattutto, ovviamente, alle popolazioni dei Paesi indebitati. Il meccanismo dell’indebitamento estero interagisce con altri circuiti economico-finanziari che, muovendosi talvolta in maniera più sotterranea, nella sostanza possono risultare altrettanto poco orientati a promuovere lo sviluppo socio-economico delle popolazioni, la cura del welfare e dell’ambiente. Gli effetti negativi così generati si sommano fino a creare una spirale perversa di aggravamento delle condizioni di povertà, disuguaglianze e degrado ambientale. I diversi flussi del capitalismo finanziario, pubblici e privati, legati al commercio, agli investimenti e agli aiuti disegnano una mappa complessa di relazioni nel quadro del sistema finanziario internazionale.
Nel 1996, a fianco delle misure di cancellazione parziale di debito da parte dei governi dei Paesi creditori, per la prima volta – col lancio dell’iniziativa Hipc (Heavily Indebted Poor Countries) per la riduzione del debito dei Paesi altamente indebitati, molti dei quali africani – le istituzioni finanziarie internazionali furono coinvolte nella cancellazione di parte del proprio credito. L’iniziativa fu poi rafforzata, in termini di maggiore generosità, a seguito del vertice G7 di Colonia del 1999.
L’Italia decise nel 2000 di contribuire attivamente all’iniziativa, assumendo, anche sul piano bilaterale, precise responsabilità. Si trattò di una mobilitazione ampia del Paese, che vide i governi di allora prendere solennemente degli impegni; il Parlamento varare in tempi eccezionalmente rapidi una legge in materia (la legge n. 209/2000) prima di quanto avessero fatto gli altri Paesi membri del G7; la società civile promuovere una campagna nazionale (Sdebitarsi), a fianco di simili campagne internazionali; il mondo cattolico riunirsi attorno all’iniziativa della Conferenza episcopale italiana; il mondo degli artisti sostenere queste campagne (come nel caso dell’apparizione del cantante Jovanotti al festival di Sanremo).
Nel 2006, l’iniziativa Hipc dovette subire un nuovo intervento di rafforzamento, attraverso la Multilateral Debt Relief Initiative (Mdri), per produrre effetti significativi. A dispetto dell’emergenza che sembrava dover imporre risposte immediate, nel 2015 il Ciad non aveva ancora completato l’iter per ottenere tutti i benefici dell’iniziativa. Nel 2018, il debito estero totale dell’Africa era stimato a 417 miliardi di dollari e il 36 per ce nto era dovuto ad organizzazioni multilaterali come la Banca Mondiale e il Fmi, il 32 per cento a creditori bilaterali (di cui il 20 per cento alla Cina, questo sì una novità rispetto ai decenni passati) e un altro 32 per cento a creditori privati. Intanto, il numero dei Paesi africani ad alto rischio o in difficoltà di indebitamento era più che raddoppiato, passando da 8 nel 2013 a 18 nel 2018.
Nel 2019 più di 30 Paesi africani hanno speso più per il pagamento del debito che per la sanità pubblica. Secondo la Banca Mondiale, circa il 40 per cento dei Paesi dell’Africa subsahariana erano in difficoltà o a rischio di indebitamento nello stesso anno.
Nel 2020, la crisi pandemica del Covid-19 sta aggravando pesantemente la situazione perché ha portato ad un calo dei prezzi delle materie prime e ad un aumento dei costi delle importazioni africane, mentre i proventi del turismo, delle rimesse e delle materie prime sono diminuiti. Molti Paesi africani stanno vivendo la più grande fuga di capitali mai registrata e un rapido ritiro degli investimenti internazionali.
Il Fmi prevede per il 2020 una contrazione economica record del 3 per cento in Africa, mentre il rapporto debito/Pil è raddoppiato nell’ultimo decennio, raggiungendo il 57 per cento. Da qui la decisione di G20 e Club di Parigi di prorogare di 6 mesi la Debt Service Suspension Initiative (Dssi) che interessa 73 Paesi (di cui la metà africani) fino al 30 giugno 2021, e l’impegno del G20 a fare ancora di più.
Lo Zambia, a novembre del 2020, con un onere debitorio di circa 12 miliardi di dollari (80 per cento del Pil), non rispettando l’impegno di restituzione di una tranche di circa 42 milioni di dollari di debito estero diventa il primo possibile caso africano di default nel contesto della pandemia.
In questo quadro, nel 2021 l’Italia si avvarrà della prossima presidenza di turno del G20 per cercare di assicurare un ulteriore alleggerimento del debito degli Stati africani. È un bene che ciò avvenga? Certamente sì, perché misure emergenziali sono necessarie. Sarà sufficiente per invertire la rotta degli squilibri della finanza internazionale? Quasi sicuramente no, perché prevale la tendenza a leggere in termini appunto solo emergenziali le crisi invece strutturali che si susseguono regolarmente. Il fatto che, come ricorda la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, i paesi ammissibili alla Dssi spendano 92 milioni di dollari al giorno per il pagamento del debito quando potrebbero destinarli ai problemi amplificati dalla pandemia, risuona tragicamente simile a quanto si diceva venti o trenta anni fa.
Le contraddizioni di fondo non sono mai state affrontate e risolte e si sono occultamente accumulate. Si è trattato solo di «tempo guadagnato», per citare Wolfgang Streeck. Gli episodi di crisi finanziaria sono purtroppo solo esempi e sintomi di un’instabilità finanziaria strutturale e di una marginalizzazione delle priorità di sviluppo che la matrice neoliberista del senso comune è sin qui riuscita a ignorare.