Bernacchi (Cesvi): ma insieme politica e ONG possono farcela
Secondo la direttrice della onlus, l’Indice globale della fame rivela che 50 Paesi sono ad alto rischio ma che allo stesso tempo ci sono segnali incoraggianti. Anche per l’Africa.
“Gli interventi non possono essere portati avanti solo dalle ong; il ruolo delle politiche e dei programmi delle istituzioni, con azioni coordinate tra società civile e donatori, è decisivo”. Daniela Bernacchi, direttrice generale della fondazione onlus Cesvi, parla con Oltremare dopo la pubblicazione della tredicesima edizione dell’Indice globale della fame, il Global Hunger Index. L’intervista è occasione anche per ragionare di cooperazione, di impegni da rafforzare e, tenendo fermo l’obiettivo Fame zero, di sfide da affrontare.
Direttrice, gli ultimi dati della Fao rivelano un aumento del numero delle persone in condizione di insicurezza alimentare. Nel mondo circa 821 milioni soffrirebbero la fame, con denutrizione e malnutrizione cronica. La tendenza è negativa?
“È vero che rispetto allo scorso anno c’è stato un peggioramento ma per il periodo compreso tra il 2000 e il 2018 l’Indice rivela un trend migliorativo a livello mondiale. Gli indicatori presi in considerazione sono quattro: mortalità infantile, denutrizione della popolazione adulta, deperimento infantile e arresto della crescita”.
Quali sono i punti essenziali nell’Indice?
“Ci sono diversi Paesi dell’Africa subsahariana e dell’Asia meridionale in situazione grave di fame rispetto alla nutrizione infantile. Poi ce ne sono 13 per i quali purtroppo non è stato possibile effettuare i calcoli a causa della mancanza di accesso agli indicatori. Questo è avvenuto perlopiù in Africa, in aree di particolare attenzione e difficili per gli operatori umanitari, come Sierra Leone, Zambia, Repubblica Centrafricana, Ciad e Madagascar. È evidente, come evidenziato dagli studi della Fao, che raggiungere l’obiettivo Fame zero entro il 2030 è una sfida. Se si mantengono i ritmi attuali, almeno 50 paesi non rientreranno nella categoria di ‘fame ridotta’. Pesano poi le differenze regionali e un divario sempre più accentuato tra ricchi e poveri all’interno di singoli Stati, come ad esempio India e Guatemala. Poi, ripeto, ci sono i Paesi per i quali i dati non sono disponibili. Sappiamo che la Somalia ha il tasso più alto per la mortalità infantile, del 13%, e che la denutrizione sfiora il 50%. Cesvi opera in Somalia con programmi di resilienza sin dalla carestia del 2011, che causa tuttora insicurezza alimentare”.
Che ruolo deve avere la cooperazione internazionale?
“Gli interventi non possono essere portati avanti solo dalle ong. Servono politiche e programmi di istituzioni, con azioni coordinate tra società civile e donatori. Negli ultimi tre anni, la Cooperazione italiana ha accresciuto gli investimenti e puntato molto sull’Africa, una tendenza molto positiva. Gli investimenti sono ancora lontani dallo 0,7 del Prodotto interno lordo ma speriamo che non subiscano uno stop e che continuino, favorendo percorsi di sviluppo”.
Bisogna andare oltre l’emergenza?
“Ci vuole anche attenzione allo sviluppo, certo. A Bruxelles è stato adottato lo European Investment Plan, che mira a coinvolgere le imprese e immagina l’Africa come partner, puntando su agricoltura, agro-business, energia per industrie e Pmi locali. In Italia c’è l’impegno di Cassa depositi e prestiti come banca di sviluppo. Sono iniziative positive da tradurre in investimenti concreti, anche per costruire città sostenibili: in conseguenza di siccità e cambiamenti climatici, in Africa c’è la tendenza a sovraffollare le capitali, che così rischiano di trasformarsi in gigantesche bidonville”.
Nell’Indice 2018 è evidenziato il nesso tra fame e migrazioni forzate…
“Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, le persone costrette ad abbandonare la propria terra sono ormai più di 68 milioni, delle quali 40 milioni sfollati interni o accolti in Paesi vicini ancora alle prese con difficoltà di sviluppo. E nei campi profughi ci sono tempi medi di permanenza altissimi: da emergenziale il problema rischia di diventare endemico”.