Cop27, Perteghella (Eccø): “Serve una nuova cooperazione climatica”
Costi e danni, finanziamenti per il clima e il ruolo dei ministeri degli Esteri e dell'Ambiente, oltre che della cooperazione. Il nostro inviato a Sharm el-Sheikh ne ha parlato con Annalisa Perteghella, senior foreign policy advisor del think tank italiano Eccø
Cop27 ha già avuto un risultato importante: ribattezzata la “Cop africana” per la sua collocazione in Egitto e per il ventaglio di temi di interesse per tanti paesi in via di sviluppo (dalla finanza climatica al meccanismo di Loss&Damage), Cop27 ha dimostrato che serve accelerare sulla cooperazione tra Paesi industrializzati e quelli di recente industrializzazione nell’ottica di una nuova dottrina di sicurezza globale legata all’enorme rischio climatico. Aumentare le risorse per mitigazione farà spendere di meno in adattamento, sostenere l’adattamento a fenomeni inevitabili (come l’aumento delle siccità) farà ridurre il ricorso al meccanismo di Loss&Damage, un’assicurazione sulle perdite e danni per i Paesi più vulnerabili e tra i meno responsabili del cambiamento climatico, come le nazioni insulari o hotspot climatici come il Pakistan o il Corno d’Africa. Per questo il ruolo dei ministeri degli Affari esteri, dell’Ambiente e le agenzie della cooperazione sono investite di una nuova responsabilità politica e di un nuovo mandato di quella che dovremmo definire la dottrina dell’Accordo di Parigi, in particolar modo sull’Africa e sull’area mediterranea. Oltremare ne ha parlato con Annalisa Perteghella, senior foreign policy advisor del think tank italiano Eccø, durante i lavori negoziali a Sharm el-Sheikh.
Oggi ci troviamo in una fase molto complessa della geopolitica, con le tensioni Usa-Cina, la Russia nemica del mondo occidentale, il rallentamento dell’economia globale ma soprattutto con lo spettro della crisi climatica e ambientale che incombe sui paesi più fragili sottoforma di carestie, crisi idriche o fenomeni meteo catastrofici come l’alluvione in Pakistan. Dai negoziati Unfccc giungono numerose chiamate alle armi per rafforzare la cooperazione internazionale su questo tema, sostenuta da nuove risorse.
Noi dobbiamo inquadrare la questione climatica come una questione di sicurezza nazionale. In Italia un pensiero del genere non si è ancora sviluppato. Si sta iniziando a vedere qualcosa nei think tank specializzati sugli affari esteri, ma spesso manca la competenza specifica sul clima. Cercare di capire come determinati fenomeni climatici influenzeranno le migrazioni, come il cambiamento climatico agirà da “moltiplicatore delle minacce” esacerbando tensioni pre-esistenti, infiammando conflitti latenti, analizzare come l’inazione climatica nei paesi più vulnerabili impatterà la nostra economia e stabilità, rimane un campo di ricerca e azione ancora poco esplorato.
L’Italia da qualche anno però ha iniziato a comprendere il ruolo chiave della cooperazione su queste tematiche.
L’Italia fa tantissimo in ambito di cooperazione, il problema è che non lo fa in maniera sufficientemente strategica sul clima. I paesi membri dell’Unione Europea di solito si specializzano su temi specifici e rafforzano le competenze, mentre l’Italia non ha ancora un set di buone pratiche, che siano sull’acqua, sull’adattamento, sulla resilienza delle infrastrutture. Il modello dovrebbe essere quello della Agence Française de développement che dopo l’Accordo di Parigi ha concentrato risorse e competenze sulla cooperazione climatica in aree chiave e settori strategici.
Sebbene ci siano tanti progetti Aics che iniziano a guardare alle tematiche climatiche, nei progetti manca quel “mainstreaming” degli obiettivi cliamtici, che invece avviene a livello europeo. A questo scopo, è importante formare il personale di Aics ma anche del ministero degli Affari esteri e della cooperazione interazionale (Maeci), sulle politiche climatiche. Questo appare ancora più urgente alla luce della triplicazione della finanza per il clima, che include il neo-costituito Fondo italiano per il clima, da parte dell’Italia: queste risorse dovranno essere investite in maniera strategica.
Ovvero?
L’Italia ha triplicato la propria finanza per il clima, che passa da 460 milioni di euro a circa 1,5 all’anno. Il contributo principale verrà dal nuovo Fondo Italiano per il Climala cui dotazione sarà di 840 milioni l’anno, fino al 2026. Di questo Fondo, saranno solo 40 i milioni da destinare a contributi a fondo perduto, il resto sono prestiti. Però questa è un importante dotazione che vedrà una necessario ampliamento della cooperazione italiana sul tema clima. Per non parlare poi delle risorse in finance blending e matching che arriveranno su questi progetti, a cui molte aziende sono sempre più interessate e che avranno un ruolo importante proprio su questo tema.
Insomma c’è da attendersi un boom di progetti di mitigazione e adattamento.
Andando oltre però, il problema è a livello ministeriale. Dentro il Maeci serve potenziare gli uffici preposti e realizzare nuove strategie di formazione delle competenze, non solo reperirle sul mercato del lavoro. Serve un mainstreaming delle politiche climatiche in generale dentro la Farnesina. Un lavoro importante lo sta iniziando a fare l’inviato speciale per il clima, Alessandro Modiano, che ha creato importanti collegamenti tra Maeci e Mase (ex-Mite).
Quali riforme di sistema legate ai temi climatici serve invece che il Maeci spinga?
Indubbiamente servirebbe un forte supporto per la Bridgetown Initiative, una riforma del sistema finanziario internazionale e delle banche multilaterali di sviluppo che prende atto che i Paesi in via di sviluppo sono quelli maggiormente gravati da un debito pubblico molto elevato, specie con il rialzo dei tassi e condizioni climatiche particolarmente avverse. Oggi numerosi Stati vanno verso il default – pensiamo allo Sri Lanka – e questo riduce la capacità di fare prestiti e di avere liquidità per tutti gli interventi di mitigazione e adattamento sui cambiamenti climatici. Lo ha detto chiaramente il delegato del Pakistan in questi giorni che servono nuovi sistemi di finanziamento. La Bridgetown Initiative dunque faciliterebbe l’accesso al credito per quei paesi che vogliono aumentare la propria capacità di adattamento o fare progetti di mitigazione, offrendo tassi ridotti su temi estremamente più lunghi di ripagamento del debito.
A chi gioverebbe l’iniziativa?
Questo è soprattutto un tema di sicurezza per l’Italia, dato che alcuni Paesi a rischio, esposti ad esempio all’insicurezza alimentare legata ai cambiamenti climatici, come la Tunisia, non potrebbero accedere alla finanza climatica. Questo rallenterebbe tanti fenomeni critici, su tutti l’immigrazione.
Il Mediterraneo è un’area da attenzionare particolarmente?
La cooperazione climatica ha una sua priorità nella regione mediterranea, dopo l’instabilità delle primavere arabe ora serve controllare l’insicurezza legata al clima e creare un sistema per investire in energie rinnovabili, attraverso garanzie e meccanismi innovativi di finanza climatica. Qui a Cop27 ha ricevuto grande interesse il padiglione dell’Unione per il Mediterraneo che è diventato un grande punto di incontro tra paesi per delineare strategie di cooperazione, economica e culturale. Serve investire innanzitutto in sicurezza alimentare legata al clima ma anche in rinnovabili.
Quali sono le priorità per poter accelerare gli investimenti pubblico-privati nei paesi mediterranei?
Rafforzare la governance dei paesi attraverso un dialogo tra le parti. La European Bank for Reconstruction and Development (Ebrd) ha avviato una serie di dialoghi per un quadro regolatorio atto ad accogliere gli investimenti in energie rinnovabili che sia allineato con quello europeo. C’è poi un discorso politico legato ai sussidi fossili: molti paesi esportatori hanno ancora abbondanti risorse per sostenere petrolio e gas che in questo modo rimangono competitivi con le rinnovabili. Data la situazione attuale non si può intervenire rapidamente ma è una strategia da programmare, in linea con le decisioni del G20.
Ampliare progetti e investimenti può offrire opportunità di che tipo?
Quello che deve guidare l’intervento dell’Unione europea è il principio della creazione di valore in loco, aprire il mercato, diversificare l’economia, formare competenze. Il settore dei fossili crea pochissimi posti di lavoro, mentre gli investimenti delle rinnovabili possono creare catena di valore complesse e una buona cifra di posti di lavoro. Possiamo pensare ad un re-shoring regionale, che accorcia le filiere e aumenta le catene del valore, stabilizzando i territori a noi vicini e aumentando gli scambi commerciali con meccanismi di interdipendenza virtuosi che partano proprio dalle rinnovabili e dalla decarbonizzazione.
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green-economy, politica americana. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia e Oltremare. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019),Water Grabbing – le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (2018) “Che cosa è l’economia circolare” (2017). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship, una volta la Google DNI Initiative ed è stato nominato Giornalista per la Terra nel 2015.