Dacia Maraini – “La resistenza delle donne: la speranza di una “primavera rosa”.
Per la grande scrittrice italiana Dacia Maraini, dagli Usa all’Iran, dalla Germania all’Italia, le donne tornano in movimento e si fanno portatrici di una visione che sa unire idealità e concretezza. “Per questo fanno paura a poteri e regimi maschilisti e sessuofobici”.
Le donne fanno paura per la loro determinazione, per la loro capacità di resistenza ad un razzismo dilagante che le ha assunte come bersaglio principale. Le donne fanno paura perché sanno coniugare, nella sfera della vita sociale come in altri ambiti, idealità e concretezza. Le donne fanno paura perché sono costruttrici di ponti di dialogo e di inclusione in un mondo sempre più disseminato di Muri, non solo fisici ma culturali, mentali, impastati con la ‘calce’ dell’odio e dell’esclusione. Le donne fanno paura perché sono portatrici di speranza”. A rimarcarlo, in questa intervista esclusiva concessa ad Oltremare per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, è una grande scrittrice italiana: Dacia Maraini.
Le donne vittime della violenza. Le donne protagoniste, in Africa, nel Grande Medio Oriente, ma anche in Italia e in Europa, di battaglie di libertà. Donne Nobel per la pace, donne, è il caso dell’Etiopia o della Tunisia, elette per la prima volta a Presidente o a Sindaco. Siamo ad una “Primavera rosa” globale?
“Sarebbe molto bello se fosse davvero così. Bello non solo per noi donne, ma per l’intera umanità. Forse è ancora presto ed esagerato parlare di una ‘Primavera rosa’, ma di germogli promettenti, questo sì, è nelle cose che stanno avvenendo, anche qui da noi, in Italia: penso alle donne protagoniste delle manifestazioni a Torino e a Roma, solo per fare un esempio. Mi sembra che le donne stiano portando avanti una resistenza corale, con cui tutti dovranno fare i conti. Mi permetto di insistere molto sull’aggettivo ‘corale’, che è davvero qualificativo, non in senso grammaticale ma sostanziale. Perché le donne, quando si mettono in movimento, sanno pensare e agire, molto più dei maschi, in termini di ‘noi’ più che di ‘io’. L’idea di liberazione della quale sono, siamo portatrici, pone al suo centro non solo l’obiettivo di una vera parità di genere, a cominciare dalle condizioni di lavoro, ma è, come dire, coniugata al futuro. E’ una resistenza che non ha nulla di conservativo, ma che cerca di realizzare un nuovo vocabolario della politica e sperimentare vie nuove per realizzare delle conquiste che farebbero fare un salto in avanti all’intera società”.
Resistenza potrebbe apparire un concetto difensivo. Ma nella resistenza in movimento delle donne c’è anche una visione alternativa?
“Io penso di sì. Una visione molto concreta perché nasce molto spesso da un vissuto segnato da violenza, sopraffazione ma anche da coraggio e dalla determinazione a liberarsi di vecchie e nuove catene. In questo percorso, irto di ostacoli, verso la libertà, parola grande che va anche oltre il sacrosanto diritto di realizzare l’uguaglianza delle opportunità e dei trattamenti, è contenuta anche una visione della politica ariosa, salubre”.
Lei parla di resistenza delle donne: in molte parti del mondo, resistere significa mettere a rischio la propria stessa vita. Siria, Nigeria, Afghanistan, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
“È così. E la violenza che nelle realtà che lei ha indicato, a cui davvero se ne potrebbero aggiungere tante, altre sono la conferma di quello che ho cercato di argomentare in precedenza: in società patriarcali, per regimi chiusi, sessuofobici, le donne fanno doppiamente paura, perché sono portatrici di una resistenza che non chiede solo un ricambio ai vertici del potere, comunque maschile, ma che incrina gli stessi meccanismi di un potere che si regge, per l’appunto, su tradizioni patriarcali e su una cultura che considera le donne solo come appendice degli uomini, strumento di procreazione, senza identità e senza diritti anche nell’ambito famigliare. Penso alle donne iraniane che hanno appeso il velo ad un bastone.
Che grande simbologia c’è in questa azione di protesta non violenta. E che coraggio hanno avuto per inscenare quella protesta, e anche che creatività: il velo appeso ad un bastone…Per averlo fatto, quelle donne sono state arrestate, torturate…Penso all’Africa, un continente che amo, che ho conosciuto in tanti viaggi e che ho provato a far vivere nei miei romanzi. Quanto dolore c’è nella storia di tante donne nigeriane, somale, e di tanti altri Paesi nei quali la violenza si è abbattuta su di loro in modi indicibili, che solo a pensarci vengono le lacrime agli occhi. Storie di stupri di massa, di donne vendute come schiave sessuali, donne promesse in premio ai combattenti…La loro, è storia di dolore e di riscatto. Sono tanti pezzi di un puzzle che se riuniti formano un mosaico di straordinaria significanza: che mostra come sia possibile trasformare anche la violenza più brutale subita, come donna, come madre, come figlia, in energia positiva, in battaglie di civiltà. E questa è una lezione tanto più importanti in tempi bui come quello in cui viviamo oggi, tempi segnati da un razzismo che, anche qui nell’avanzata Europa, si fonda su vecchi pregiudizi e su una idea di ‘normalità’ che fa paura, perché concepisce l’altro da sé come una minaccia, un ‘invasore’, contro cui scatenare paure e odio. Ed è un razzismo che ha nel suo mirino le donne, e non solo perché i razzisti sono al loro fondo, dei vigliacchi che concepiscono e praticano solo un linguaggio: quello della forza. Ma il razzismo punta contro le donne perché ne percepisce la potenzialità della loro resistenza e la visione inclusiva delle quali, le donne in movimento, sono portatrici. Ciò che spaventa è la concretezza che ispira le donne nel loro agire, individuale collettivo.
Concretezza non è sinonimo di realismo, di ripiegamento sull’esistente, dentro il quale provare a ritagliarsi qualche spazio o miglioria. Concretezza vuol dire provare a praticare dei principi, calandoli nella realtà, e mettere in conto anche i necessari compromessi. Ma, per fortuna, segnali positivi di cambiamento li abbiamo sotto gli occhi. Guardiamo alla politica: non sono una esperta in materia, ma credo che non sia un caso che l’unica forza che in Germania sia riuscita a contrastare una deriva a destra, siano i Verdi guidati da una donna.
Come ritengo un segnale incoraggiante il fatto che la nuova Camera dei rappresentati, uno dei rami del Congresso degli Stati Uniti, sia a maggioranza di donne, e che diverse di loro sono donne con origini straniere. Tutti questi, a me paiono fatti significanti, che lasciano spazio alla speranza”.
In precedenza, ha fatto riferimento all’Africa, un Continente che Lei ha conosciuto, visitandolo più volte, e amato anche come scrittrice. Tra i tanti ricordi, qual è quello più recente e che ricorda con particolare trasporto?
“Ricordo l’ultima visita, un paio di anni fa, in Costa d’Avorio. Ricordo ancora con emozione l’incontro che ebbi con un gruppo di donne i cui mariti erano in guerra tra loro. Quelle donne erano unite nel dire no all’utilizzo dei bambini-soldati. Quella dei bambini-soldati è una piaga terribile, ancora oggi molto diffusa in molte aree di conflitto. Vi sono testimonianze agghiaccianti e rapporti delle agenzie delle Nazioni Unite e di importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani, che documentano questo fenomeno contro cui la comunità internazionale dovrebbe agire con molta più unità e determinazione di quanto sin qui abbia fatto. Per tornare a quell’incontro, il messaggio che quelle donne lanciavano era dirompente: lasciate stare i bambini, non fate di loro uno strumento di morte, non rubate loro il futuro dopo aver loro negato, cancellato l’infanzia. Conoscere alcune realtà africane è una lezione di vita che farebbe bene apprendere di persone a tantissima gente che si lamenta della povertà. Molti villaggi in Africa non hanno né acqua né luce elettrica. E per raggiungere un pozzo d’acqua ci sono persone, tante e tra di esse tantissime donne, che devono percorrere a piedi 4-5 chilometri. La povertà vera, noi non la conosciamo”.