“Difendere i diritti umani, una battaglia di civiltà dalla quale non ci si può sottrarre”
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, trae un bilancio del 2018: la speranza è nelle milioni di uomini e donne, soprattutto donne, che hanno sfidato regimi repressivi e leggi liberticide. Per non dimenticare Giulio Regeni.
Se c’è una organizzazione che può dare una visione a “tutto mondo” dello stato dei diritti umani nell’anno che sta per concludersi, questa organizzazione è Amnesty International. Oltremare ne ha parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
Che anno è stato il 2018 per quanto riguarda il tema dei diritti umani su scala globale?
”Evidenzierei tre aspetti: il primo è la continuazione dei conflitti con il consueto, drammatico tributo di vite umane: dalla Siria allo Yemen, dall’Afghanistan alle varie crisi dell’Africa subsahariana. Il secondo aspetto che merita, a mio avviso, di essere sottolineato nel Settantesimo anniversario della Dichiarazione universale del Diritti dell’Uomo, è la recrudescenza degli attacchi contro coloro che ne pretendono il rispetto, ossia i difensori dei diritti umani. Ne sono stati arrestati a centinaia in decine di Paesi, e alcuni sono stati addirittura assassinati, come in Colombia e in Brasile. Il terzo aspetto, questo senza dubbio positivo, è la mobilitazione di milioni di uomini e donne, soprattutto donne, che hanno sfidato leggi o proposte di legge liberticide, una violenza sessuale epidermica e una narrazione pubblica sempre più misogina”.
Resta sempre ad una visione globale, planetaria, quali sono state le aree più vulnerabili in materia di diritti umani?
”Da un punto di vista numerico, certamente l’Asia, dove almeno 1.000.000 di uiguri e appartenenti ad altre minoranze sono stato imprigionati in Cina, mentre 720.000 rifugiati in Rohingya hanno continuato a rischiare di essere rimandati in Myanmar dal Bangladesh. Altrove, vi sono specifiche situazioni drammatiche: dalla Turchia all’Egitto (Paesi nei quali il dissenso è ridotto al silenzio), in Messico, con la consueta mattanza di giornalisti e, in prospettiva, la escalation della crisi in Camerun, dove la protesta dei movimenti separatisti anglofoni è diventata lotta armata”.
E per quanto riguarda l’Europa?
”Abbiamo visto gli spazi a disposizione per la libertà di espressione ridursi sempre di più in Polonia, Ungheria e Russia. In Bielorussia sono proseguite le esecuzioni di condanne a morte. Complessivamente l’Unione Europea ha mostrato, in tema di immigrazione, qual è la priorità: cercare di trattenere migranti e richiedenti asilo prima che prendano il mare per provare a raggiungere le frontiere meridionali o orientali europee, anche a costo di produrre elevata sofferenza e violazioni dei diritti umani”.
Quanto la “diplomazia dei diritti umani” è riuscita a permeare la diplomazia degli Stati?
”Direi in modo insufficiente. Non è una novità che prima dei diritti vengano altri interessi. Noi ci aspettavamo che il 2018 fosse maggiormente impiegato per riaffermare e riattualizzare i principi, gli ideali e i contenuti dei 30 articoli della Dichiarazione del ‘48”.
In precedenza, riferendosi all’aspetto positivo dell’anno che sta per concludersi, ha fatto riferimento al ruolo da protagonista delle donne nella lotta per i diritti umani e civili. Da cosa nasce, a suo avviso, questo protagonismo “rosa”?
“Da qualcosa che le donne vivono sulla loro pelle: la disuguaglianza, la violenza di genere, l’assalto, qua e là, ai loro diritti sessuali e riproduttivi, e il disinteresse dei poteri nei confronti della violenza sessuale. In Europa, per fare un esempio, solo in 8 Paesi un rapporto sessuale senza espressione di consenso è considerato stupro”.
C’è chi sostiene e si batte perché il rispetto dei diritti umani sia parte integrante e vincolante di accordi di cooperazione bilaterali o multilaterali. Si tratta di una utopia destinata a restar tale?
”No, non è una utopia, E’ un obiettivo realistico quanto lontano da raggiungere. Non perseguirlo rappresenterebbe un salto indietro, sotto vari aspetti, almeno di due secoli”.
Tradizionalmente, il bilancio dell’anno che se ne va porta con sé delle immagini che più lo raccontano. Le chiedo: sul versante dei diritti umani, quali sono due immagini che, a suo avviso, possono riassumere, nel male e nel bene, questo 2018?
”L’immagine negativa che mi viene subito in mente è quella del corpo crivellato di colpi di Marielle Franco, la coraggiosa difensora dei diritti umani assassinata a Rio de Janeiro il 14 marzo. Una immagine positiva, per quello che può significare in prospettiva per i due popoli, è l’incontro di agosto tra i presidenti di Etiopia ed Eritrea”.
Time ha scelto come persone dell’anno Jamal Khashoggi, il giornalista e dissidente saudita assassinato il 2 ottobre nel Consolato del Regno a Istanbul e gli altri giornalisti perseguitati perché “guardiani della verità”.
”E’ un riconoscimento importante per le qualità e il coraggio dimostrati da Khashoggi quando a deciso di rompere con le autorità saudite ed entrare negli States. La sua vicenda mostra il livello di impunità che fino al suo omicidio è stato consentito ai Sauditi di aere e mette anche in luce nuovamente quel mondo oscuro di complicità tra aziende che producono software per lo spionaggio e regimi repressivi”.
C’è chi sostiene che per garantire una qualche stabilità di una regione cruciale quanto esplosiva qual è il Medio Oriente, con questi regimi si deve comunque interloquire…
”Mi chiedo quale stabilità possano assicurare regimi che si mantengono al potere solo con la forza bruta e la repressione del dissenso”.
Affrontare il tema del rispetto dei diritti umani porta inevitabilmente a fare i conti con una ferita aperta ormai da 34 mesi: il brutale assassinio di Giulio Regeni. Cosa si attende Amnesty International per il 2019 su questa tragica vicenda?
”Che l’accelerazione riscontrata negli ultimi due mesi dell’anno, grazie all’iniziativa della Procura di Roma e alla positiva azione del presidente della Camera, possa farci finalmente conoscere i nomi dei mandanti e degli esecutori del sequestro, della sparizione forzata, della tortura e dell’omicidio di Giulio. E perché questo accada dovrà cambiare l’atteggiamento di chi – l’Egitto – la verità deve darla e di chi – l’Italia. Deve pretenderla”.