Gianfranco Rotigliano (Unicef): “Cresce l’Africa dei bambini”
Parla il medico-ricercatore, in prima fila nelle emergenze, dall’Indonesia travolta dallo tsunami alla Somalia ostaggio della guerra civile fino all’Africa occidentale colpita da ebola. Il suo nuovo impegno è in Congo, sempre dalla parte dei bambini. Intervista.
“Serve la solidarietà, perché se non c’è la spinta a voler fare qualcosa non parliamo di niente”. È un attimo ma Gianfranco Rotigliano, medico e ricercatore, una vita per i bambini, cambia tono ed espressione. Le parole cominciano a scivolare veloci, come se prima fossero state trattenute; come se d’improvviso tornassero alla mente ricordi, luoghi, Paesi. Rotigliano si è occupato di allergologia e malaria, insegnando alla Scuola di specializzazione in medicina tropicale. Ha lavorato come esperto del ministero degli Esteri fino al 1995 e, sia prima che dopo, ha girato il mondo: con il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) è stato nell’Indonesia travolta dallo tsunami, nella Somalia ostaggio della guerra civile e nell’Africa occidentale colpita dell’epidemia di ebola. Oltremare lo contatta in Congo, dove è tornato come rappresentante Paese 15 anni dopo la prima volta. “L’Africa si muove”, dice Rotigliano, “e anche la mortalità infantile è crollata”. I ritorni, a volte, sono occasione di bilanci.
Come si difendono i bambini? E cosa invece è meglio non fare?
“Di interventi positivi, e di errori, ce ne sono sempre. Aiutare i bambini vuol dire vaccinarli, mandarli a scuola, proteggerli da abusi e violenze. La cooperazione si dispiega in campi differenti, sterminati. Quando ci si adatta alla cultura del posto e si coinvolge il governo locale si fa un lavoro migliore. È invece bene evitare interventi dall’esterno perché non portano da nessuna parte. Gli orfanotrofi ad esempio sono un errore: i bambini devono essere assegnati alle famiglie allargate e restare nelle loro comunità di origine. Sulla nutrizione si sbaglia se si fanno passare pratiche alimentari non consone alla cultura locale: anche in questo, nel corso degli anni, di errori ne sono stati fatti. Poi c’è la cooperazione di emergenza, nella quale l’intervento è complesso e abbraccia mille aspetti insieme. Come esempio virtuoso penso ancora alle vaccinazioni, grazie alle quali sono state scongiurate centinaia di migliaia di morti”.
Parliamo di comunicazione. Le campagne che cercano di mobilitare l’opinione pubblica mostrando disperazioni africane, bambini con pance gonfie e volti insidiati da zanzare, sono rappresentazioni corrette?
“Mi permetto un riferimento a Unicef. Nelle campagne degli ultimi sette anni di rado sono stati mostrati bambini emaciati. Si è puntato al contrario sul positivo, mostrandoli sorridenti, come dovrebbero essere. Certo se parliamo della regione congolese del Kasai in qualche modo bisogna farlo sapere che oggi ci sono 400mila bambini che soffrono di malnutrizione grave. In genere però Unicef mostra bambini felici, magari malvestiti perché poveri, ma niente a che vedere con le rappresentazioni del Biafra. Un ottimo lavoro in Italia è stato fatto con lo spot tv per l’8×1000: si intitola ‘Una storia bellissima’ ed è un esempio di come colpire usando immagini positive. Il concetto di base è: ‘I bambini dovrebbero essere tutti così ma vi stiamo mostrando solo quelli fortunati, perché tanti muoiono a causa della malaria o di altre malattie’”.
In che direzione sta andando l’Africa?
“Vedo una tendenza positiva. Ci sono Paesi che si stanno emancipando su un piano economico e che stanno offrendo servizi migliori. La mortalità infantile è crollata, a livello regionale e globale: da 11 anni ormai siamo sotto il milione di morti. C’è un trend di sviluppo, che in certa misura riguarda anche Somalia, Congo o Repubblica Centrafricana: si pensa che siano Paesi dove non esiste niente e dove dobbiamo fare tutto noi ma non è sempre così. Qui a Kinshasa c’è un governo mentre dieci anni fa, almeno per la parte orientale del Paese, nei fatti non c’era. In 15 anni la mortalità infantile e giovanile si è ridotta di oltre un terzo. Oggi l’85 per cento dei bambini va a scuola, mentre prima eravamo al 50 per cento”.
Cos’è che serve?
“La solidarietà. Senza solidarietà lasciamo i barconi dei migranti in mezzo al mare. Stati come il Congo sono difficili e corrotti ma anche noi italiani di lezioni sulla corruzione non possiamo darne molte. Se non c’è spinta a voler fare qualcosa per lo sviluppo non parliamo di niente. Attenti però a non farsi lusingare dall’elemosina: va bene costruire un pozzo in un villaggio ma se vogliamo incidere sugli indicatori dobbiamo lavorare sui sistemi, sulla sanità, sull’approvvigionamento idrico, sulle culture. Non bisogna fermarsi in superficie. E c’è in dato positivo: nonostante i conflitti, i Paesi africani stanno avanzando e questo è un bene per tutti. Di recente, l’Italia ha aperto un’ambasciata a Niamey e un ufficio consolare a Bamako. Niger e Mali sono Paesi di transito per i migranti. Magari con le nostre ambasciate possiamo aiutarli”.