Le diaspore scavalcano i Limes (e forse ci salveranno): la versione di Lucio Caracciolo
Cosa ci ha insegnato la pandemia. E quello che invece non impareremo. Soprattutto se ai fatti preferiremo gli slogan. Parla il direttore della rivista di geopolitica.
“Bisogna fare i conti con i fatti. E oggi il trasferimento delle rimesse dai Paesi ricchi a quelli più svantaggiati vale molto di più degli aiuti pubblici allo sviluppo messi a disposizione dai governi”. Parole di Lucio Caracciolo, che in un’intervista con Oltremare ragiona di cooperazione internazionale ma anche e soprattutto del mondo che sarà. Fondatore e direttore di Limes, la prima rivista italiana di geopolitica, giornalista e docente di Studi strategici all’università Luiss Guido Carli, è convinto che gli slogan non corroborati dalla realtà delle cose rischino di rivelarsi controproducenti. E che la pandemia, anche in fatto di cooperazione allo sviluppo, potrebbe aver cambiato le cose molto meno di quello che pensiamo. E non per il meglio.
Direttore, il Covid-19 ha dimostrato una volta di più che quello che accade al mio vicino riguarda anche me. Che il mondo è una casa comune e che di questa casa dobbiamo prendercene cura. I governi ne prenderanno atto? Ci sarà più cooperazione internazionale, per la salute, per lo sviluppo, per l’ambiente?
“Una premessa: bisogna fare attenzione alle parole. Non penso solo all’‘aiutiamoli a casa loro’. C’è un tipo di retorica che può essere controproducente, dando magari l’idea di chissà cosa. Parliamo invece di cooperazione allo sviluppo: se il punto è aiutare le popolazioni più sofferenti dell’Africa, la cosa sicura da fare è favorire il flusso delle rimesse dei migranti. Questi trasferimenti di denaro valgono molto di più della cooperazione dei governi. Vanno da persona a persona. Con tutta la migliore volontà, invece, la cooperazione governativa passa attraverso strutture locali con la minaccia costante di incappare in entità finte o addirittura in organizzazioni criminali. Ci sono progetti nobili, senz’altro. Mentre gli slogan, da soli, non producono effetti concreti. Bisogna favorire il flusso circolare delle persone, in modo controllato e regolare, tra l’Africa, il Medio Oriente, le aree più sofferenti del pianeta e il nostro mondo. Allo stesso tempo, lo ripeto, è necessario garantire il flusso delle risorse finanziarie dalle comunità della diaspora verso i Paesi di origine”.
Crede che nel mondo, dopo Donald Trump e “America First”, le logiche nazionali continueranno ad avere un peso dominante? Si dirà ancora “ci siamo prima noi” come sta accadendo con i vaccini? O è possibile che si rafforzi la consapevolezza che il pianeta è uno solo ed è di tutti?
“Al contrario: ormai siamo alla ‘Lucania First’. Non sono solo gli Stati a chiudere le frontiere in faccia agli altri ma persino le regioni. In tempi di crisi la tendenza non è ad aprirsi ma a chiudersi. Una comunicazione drammatica ci ha messo del suo e allora vediamo alcuni Paesi reagire in modo poco produttivo. Guardi, mi viene da pensare ai flussi di migranti quest’estate: in tanti penseranno che arriva gente non vaccinata; ci sarà una reazione negativa”.
Si imporranno chiusure nazionali anche superata la fase più critica della pandemia?
“Credo che sopravviverà una dimensione strategica della cooperazione, che stiamo vedendo all’opera già in questi mesi. Russia, Cina e anche Stati Uniti stanno vendendo e distribuendo vaccini per ragioni di prestigio e di influenza. Esiste una geopolitica degli aiuti basata sull’idea che il dono è uno strumento egemonico. È come dire: ‘Sono superiore a te e tu di me hai bisogno’. Questo uso della cooperazione continuerà”.
Il virus ha ignorato e scavalcato i confini nazionali. Non è che dalla pandemia il limes esce, se non cancellato, quantomeno sbiadito?
“I confini contano e conteranno. La nostra identità è determinata dalla differenza con gli altri e la differenza è determinata dai confini. È vero a livello di individui ma anche di comunità. Io sono io perché sono diverso da te e viceversa. I confini possono però essere scavalcati e cancellati attraverso i conflitti. È chiaro: se entri a casa mia, reagisco…”
La pandemia non ci avrebbe insegnato niente…
“Qualcosa sì. Che il problema del mio vicino è anche mio; e che se lui si ammala mi devo preoccupare e magari chiudere le frontiere. È noto che le epidemie si accompagnano a crisi che possono diventare anche conflitti”.