Padre Yameogo (Santa Sede): dopo Davos ripartiamo dall’Africa
L’Africa può aiutare l’Occidente a riscoprire il senso della solidarietà. Ma per questo avvenga serve una decolonizzazione ideologica e mentale. Intervista.
“Bisogna ridefinire l’idea di sviluppo rispettando le identità e le tradizioni millenarie degli africani. L’Africa può aiutare l’Occidente a riscoprire il senso della solidarietà, dell’umanesimo e della cura del Pianeta”. Padre Janvier Marie Gustave Yameogo, da oltre dieci anni voce del dicastero della Comunicazione della Santa Sede, è originario del Burkina Faso. Risponde alle domande di Oltremare su Davos citando i “dannati della Terra” di Frantz Fanon e poi Thomas Sankara, connazionale illustre e ferita ancora aperta, per alcuni un “Che Guevara africano”, per molti semplicemente la risposta a una globalizzazione che calpesti popoli e diritti umani.
Padre Yameogo, cominciamo da Klaus Schwab, il presidente del Forum economico mondiale. Ha sostenuto che Davos mira a “definire un nuovo approccio alla globalizzazione”, affinché sia “più inclusiva, sostenibile e basata su principi morali”. La tesi è che, “se per un verso ci sono molti più vincitori che vinti” adesso è “il momento di guardare ai perdenti e a chi è rimasto indietro”. È d’accordo?
“Certo che bisogna “definire un nuovo approccio alla globalizzazione”. È ora di dire basta alla globalizzazione dell’indifferenza denunciata tante volte da Papa Francesco, a partire dal suo primo viaggio a Lampedusa. Che cos’è la globalizzazione attuale se non la schiavitù del denaro e del profitto a tutti costi e una ‘cultura dello scarto’… Sì, dobbiamo ritornare a una globalizzazione inclusiva, sostenibile e basata su principi morali: sulla priorità, cioè, della persona e di tutta la famiglia umana. I perdenti, infatti, sono sempre più numerosi. Bisogna aprire gli occhi: povertà e precarietà stanno crescendo anche nei Paesi cosiddetti sviluppati”.
Quale potrebbe essere la via di una globalizzazione inclusiva?
“È necessario interrompere il circolo vizioso della violenza e dell’esclusione sociale. Varcando le porte di una prigione, durante l’anno giubilare, il Papa ha detto che “il problema della sicurezza non si risolve solo incarcerando” e che è invece fondamentale “affrontare le cause strutturali e culturali dell’insicurezza che colpiscono l’intero tessuto sociale”. Per una globalizzazione inclusiva, per scalfire l’indifferenza e l’odio, bisogna allora iniziare dall’educazione dei propri figli a casa e a scuola e favorire la partecipazione civica e responsabile di tutti. Poi c’è il sistema dell’informazione, che deve mettere in guardia dall’‘anestetizzazione delle coscienze’ e dal ‘cancro sociale’ della corruzione”.
Nel suo ultimo discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Francesco ha sottolineato il rischio di “una progressiva marginalizzazione dei membri più vulnerabili della famiglia delle nazioni”. Si riferiva ai Paesi africani?
“Già nel 1995, Giovanni Paolo II disse: ‘L’Africa di oggi può essere paragonata all’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico; egli cadde nelle mani dei briganti che lo spogliarono, lo percossero e se ne andarono lasciandolo mezzo morto’ (cfr. Lc 10, 30-37). L’Africa non è povera bensì impoverita dalla perversità del mondo, dalle scelte delle sue élites che si sono arrese ai potenti e dalle prepotenze del momento. Una globalizzazione selvaggia ha pervertito i diritti dell’uomo e ha contributo a distruggere lo Stato di diritto che stava germogliando: penso alla privatizzazione dell’istruzione, della salute, dell’acqua, dei beni e dei servizi primari per la vita umana”.
Quali sono secondo lei le priorità per uno sviluppo condiviso dal punto di vista dell’Africa?
“Papa Benedetto XVI diceva che l’Africa rappresenta un immenso ‘polmone spirituale’ per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza. Per molti quello che il cosiddetto Primo mondo definisce sottosviluppo è un rifiuto del modello occidentale di saccheggio della Pianeta. C’è una resistenza contro un materialismo che sta trasformando tutto in merce da comprare e vendere. Diceva Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso assassinato nel 1987: ‘Il solo modo di vivere liberi è di vivere da africani. Dobbiamo costruire basandoci sulle nostre forze, quelle degli uomini e delle donne del continente’. La retorica dell’aiuto all’Africa è frutto di una logica perversa, una sovversione dei paradigmi, una falsità costruita su ‘narrazioni’. Tutti invece vanno a fare affari in Africa, imponendo caporalato e sfruttamento. Il colonialismo, finito sul piano politico, non è mai del tutto terminato: tutto il continente rimane in balia di ingiustizie strutturali riconducibili a un Occidente bulimico. Occorre ridefinire lo sviluppo, rispettando le identità e le tradizioni millenarie degli africani. E penso che il continente africano possa aiutare l’Occidente a riscoprire il senso della solidarietà e dell’umanesimo, solidale e rispettoso del Pianeta”.
La cooperazione allo sviluppo promossa dai governi può contribuire a correggere gli squilibri della globalizzazione?
“Serve una decolonizzazione ideologica e mentale, che porti all’accettazione dell’identità altrui. Altrimenti la cooperazione continuerà spesso ad apparire una cospirazione contro l’Africa, un continente in balia dei diktat dei vincitori del momento, che sopravvive senza dignità, al modo dei ‘dannati della terra’, secondo l’espressione di Frantz Fanon. Bisogna liberare l’Occidente della pretesa della sua missione civilizzatrice e l’Africa dell’annichilimento antropologico e culturale. Solo così sarà possibile arrivare a un’umanizzazione dei rapporti e a una cittadinanza globale”.