Questa recessione globale non può cancellare l’Africa. Ecco perché
Intervista a Xavier Michon, vice segretario generale dell’Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo dei capitali (Uncdf):la folta presenza di pmi e la dinamica imprenditoriale della fascia giovanile, in continua crescita, sono una grande ricchezza per il continente. L’azione congiunta di cooperazione, tecnologie e privati può determinare un salto di qualità.
Una crisi di salute pubblica che ha generato una recessione globale e una situazione che rischia di lasciare l’Africa da parte. Allo stesso tempo, elementi di positività e ottimismo reale già presenti prima della pandemia e ancora lì a dire che il continente, nonostante tutto, può tornare a imboccare con decisione la strada dello sviluppo. Parlare con Xavier Michon, vice segretario esecutivo dell’Uncdf, garantisce uno sguardo differente e particolare su dinamiche bene affermate, a cui spesso però si guarda solo a metà. L’Uncdf è l’istituzione dell’Onu che ha il mandato di alleviare la povertà e promuovere una crescita economica sostenibile nei Paesi meno sviluppati attraverso interventi di investimento e da questo suo osservatorio Michon guarda al continente cercando tra le sue pieghe i fattori in grado di cambiare le carte in gioco. Due di questi sono le piccole e medie imprese e il ruolo che la cooperazione internazionale può avere per accompagnarle lungo un percorso di sviluppo autonomo e generatore di posti di lavoro e prosperità.
Michon, una crisi pandemica, una recessione globale: ci sono punti di ottimismo sul futuro economico dell’Africa che possiamo intravedere da questo suo osservatorio?
Stiamo attraversando una crisi che spero sia sul corto termine ma che credo debba essere affrontata con una visione di medio-lungo periodo. E se impostiamo le nostre riflessioni da questa angolazione, diversi sono i punti su cui possiamo discutere a proposito del futuro economico del continente. Un primo punto è che abbiamo un’economia globale interconnessa nella quale il commercio internazionale era prima dominato dalle grandi aziende ma che oggi, con l’abbattimento delle barriere tariffarie, con il miglioramento dei trasporti, con la diffusione delle tecnologie digitali (sappiamo che l’80 per cento degli africani possiede un cellulare), con la creazione di nuove catene di valore globali, pone, secondo me, significative possibilità anche per le Pmi oltre che per le imprese più grandi. Un secondo fattore che tutti conosciamo sono le opportunità offerte dall’Africa: il continente sta vivendo un boom demografico e i giovani rappresentano la grande parte di questa crescita, c’è manodopera qualificata, sta emergendo una classe media che avrà bisogno di prodotti e servizi, c’è un potenziale connesso all’esplosione digitale. La stessa posizione del continente è strategica, così vicino all’Europa e centrale tra i mercati asiatici e americani. E infine ci sono le ben note risorse naturali, dall’abbondanza di terre coltivabili alle ricchezze minerarie. Ultimo punto: mi sembra che con questa crisi si sia sviluppato un cambio di orientamento dell’economia globale; se prima l’economia era più rivolta alla finanza, oggi mi sembra che ci sia una sensibilizzazione dell’investimento, un’economia meno finanziarizzata e più rivolta al bene comune e all’economia reale. Anche questo elemento secondo me rappresenta un potenziale.
Quali sono le risorse su cui l’Africa può fare affidamento e che possono costituire un’opportunità per le imprese africane come per quelle internazionali?
C’è una grande opportunità, e cioè la presenza di piccole e medie imprese e la dinamica imprenditoriale dei giovani. Consideriamo solo che il 90 per cento delle aziende private africane sono piccole o medie imprese, che rappresentano circa un terzo del Pil e assorbono il 70 per cento della forza lavoro. Quando poi si parla di creatività e innovazione, sono queste le aziende che danno l’apporto maggiore, che si avventurano in territori poco conosciuti, e oggi creano circa il 45 per cento dei nuovi posti di lavoro; quando parliamo di industrializzazione dell’economia africana, di ruolo della tecnologia, è a queste aziende che dobbiamo guardare, perché iniziano ad avere un ruolo da protagonista e su queste dovremmo investire.
Resta il problema di finanziare questo sviluppo…
In realtà non possiamo dire che manchi capitale per l’Africa, il problema è avere piccole e medie imprese che arrivino a una dimensione che possa diventare interessante per il capitale commerciale. È lì che gioca un ruolo la cosiddetta blended finance, che implica una collaborazione tra soggetti pubblici e privati: il pubblico, magari, lavora nella fase iniziale, dove c’è più rischio, e apporta un finanziamento puramente di donazione, semi-commerciale, che apre poi al capitale commerciale. Ecco, qui secondo me, se lavoriamo insieme, le prospettive sono davvero interessanti per il continente e penso che ci siano modalità chiare per trovare un compromesso tra impatto e ritorno sull’investimento.
Abbiamo aperto l’anno con l’entrata in vigore dell’Area di libero scambio. Certo passeranno anni prima che possa essere pienamente implementata. Secondo lei, può costituire un fattore moltiplicatore positivo per l’Africa? Può aprire porte rimaste finora chiuse? E in considerazione dell’attuale pandemia, può essere accelerata nelle fasi di implementazione?
“Ridurre le barriere commerciali, migliorare le reti di trasporto è essenziale e un accordo di libero scambio è un elemento abilitatore di queste dinamiche. Ovviamente per gli investitori l’Africa è un mercato vastissimo, composto da più di cinquanta mercati differenti, quindi introdurre elementi comuni, avere un marco legale comparabile, procedure comparabili, semplifica molto una situazione complicata. Ma è un elemento essenziale anche per gli africani, perché li spinge ad andare al di là delle loro frontiere e a iniziare a espandersi nel continente”.
Diceva che non c’è un problema di finanza ma piuttosto un problema di collegare queste pmi al resto del mondo. Le tecnologie possono aiutare e in che modo?
“Mettendomi nei panni di un investitore che vuole stabilire contatti commerciali in mercati che non conosce, vedo che per vari Paesi, per vari mercati, manca in primo luogo l’informazione. Pensiamo a quei mercati in cui, per esempio, manca tecnologia o in cui la società non è quotata, mercati insomma in cui operano magari società buone ma per le quali non è facile reperire informazioni: l’investitore non ha conoscenze adeguate e possono prevalere idee o concetti sulle realtà, c’è paura a entrare in questi mercati e si ripiega su altre opzioni. Attori come noi o altri che invece hanno presenza sul territorio, hanno contatti con i soggetti operanti in questi mercati, nelle economie locali, hanno modo di promuovere queste realtà e identificare certe opportunità. Ecco il collegamento con il digitale. Noi pensiamo che ci sia il modo di capitalizzare queste conoscenze su una piattaforma digitale sulla quale le piccole e medie imprese possono mettere le proprie informazioni, andando più in là del nome della compagnia o dell’indirizzo, fino ad arrivare non dico a un rating ma a qualcosa di preliminare.
Nella mia agenzia pensiamo a questo primo strumento, una piattaforma dove le pmi possono elevare le proprie informazioni su cui noi possiamo esprimere un giudizio qualitativo e quantitativo, dando indicatori finanziari, connessi al mercato. Quello che vogliamo è incentivare gli scambi, per questo infatti vorremmo chiamare la piattaforma Agorà”.
Una contemporanea diffusione del digitale in Africa è essenziale, cosa che sta avvenendo.
“Certo, e ripeto che ormai la penetrazione della telefonia cellulare è molto alta. In Burundi ricordo che c’erano pannelli solari e attaccati non so quante decine di cellulari. Questo implica la possibilità di usufruire di tutti i servizi che vogliamo, di veicolare offerte imprenditoriali. Ecco perché consideriamo la telefonia cellulare un veicolo importante per promuovere lo sviluppo”.
La cooperazione allo sviluppo è estranea a queste dinamiche o ci possono essere collegamenti? A lungo si sono percepiti come due mondi differenti e oggi in Italia si sta provando a superare questa distinzione con nuova legge sulla cooperazione, che definisce azioni di cooperazione sia le azioni condotte dalle ong che le azioni che coinvolgono anche imprese private. Questa situazione è applicabile nelle dinamiche che sta descrivendo?
Oh sì, c’è una grande convergenza e questa convergenza si sta accentuando. Ricordo che in passato si parlava solamente di responsabilità sociale imprenditoriale. Oggi andiamo, non dico verso una simbiosi, ma sicuramente c’è una maggiore presa di coscienza; da parte nostra prima si guardava l’impatto ma non la progettazione economica e non accettavamo che un attore economico potesse avere un’attività congiunta con noi per un profitto privato; ora c’è una diversa accettazione e se parliamo di sostenibilità deve essere in termini di impatto e se parliamo di lavorare con il privato deve esserci un ritorno perché questo è un elemento di sostenibilità. Questo in tema di cultura istituzionale si vede dappertutto nella cooperazione allo sviluppo, è elemento fondamentale perché oggi la cooperazione internazionale sta lavorando in una dinamica di derisking, ossia preparare investimenti per elevarli a fasi ulteriori di investimento; un progetto che prendiamo nella fase iniziale con dotazione di capitale piuttosto di donazione, di appoggio tecnico, di crediti in termini agevolati, poi arriverà a una fase di maturità in cui avrà bisogno di passare a una scala superiore e potrà farlo solo con capitale commerciale. Qui ci si passa il testimone e questa è una relazione importante, ognuno si occupa di una fase e arriva il momento in cui deve subentrare l’investitore o il partner privato”.