A colloquio con Francesca Tardioli, direttore centrale per le Nazioni Unite e i diritti umani al Maeci
La Direzione Centrale Nazioni Unite e Diritti Umani fa parte della Direzione Generale Affari Politici e di Sicurezza (DGAP) del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Dal 2016 è diretta da Francesca Tardioli, ministra plenipotenziaria alla quale abbiamo chiesto di illustrarci il ruolo e le competenze di questa struttura.
Il mio attuale portafoglio comprende lo sviluppo delle politiche e la supervisione del contributo italiano a: i lavori dell’Assemblea Generale; il processo di riforma dell’Assemblea Generale e del sistema delle Nazioni Unite; le politiche di bilancio e organizzative dell’ONU; l’architettura di Pace e Sicurezza delle Nazioni Unite, comprese le attività del Consiglio di Sicurezza; le operazioni di mantenimento della pace (Peacekeeping) e le attività di costruzione della pace (Peacebuilding); la promozione e la tutela dei Diritti Umani, nei fori internazionali di cui l’Italia e Parte, in particolare Nazioni Unite, incluso il Consiglio Diritti Umani che ha sede a Ginevra, Unione Europea e Consiglio d’Europa.
La mediazione è sempre di più un’importante strategia, non a caso abbiamo il network di donne mediatrici dei Paesi nordici e il network di donne mediatrici africane (creato dall’Unione Africana). Al riguardo cosa ci può dire del Network delle “Donne mediatrici” del Mediterranee nato nel 2017 proprio su iniziativa dell’Italia? E ancora qual è l’azione del MAECI sul tema – Women, Peace and Security nel contesto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu?
L’Italia ha servito in Consiglio di Sicurezza nel 2017 come membro non permanente; in questo specifico contesto l’agenda Donne Pace e Sicurezza (Women Peace and Security, WPS) è stata una delle priorità del mandato.
Due sono stati gli ambiti di azione per promuovere l’agenda WPS:
1. la revisione dei mandati delle operazioni di mantenimento della pace (Peacekeeping Operations, PKO) per inserire o aggiornare disposizioni a tutela delle donne nei conflitti armati e al contrasto alla violenza di genere. Nel corso del 2017, sono stati 11 i mandati delle PKO, rivisti dal CdS su un totale di 17: si è posta perciò particolare attenzione a che i mandati fossero sufficientemente robusti e chiari su WPS, lotta alla violenza di genere e, naturalmente, su protezione dei civili in generale. Nelle situazioni di conflitto, infatti, benché donne, ragazze e bambine sono vittime, anzi spesso obiettivi, della violenza, anche sessuale, utilizzata proprio come arma, questo terribile fenomeno coinvolge anche uomini e ragazzi.
2. Il secondo ambito di azione è stato di approfondire il nesso tra Agenda WPS e Mediazione. Oltre alla tutela delle donne nei conflitti, l’Agenda WPS, infatti, si propone anche di valorizzare il ruolo attivo delle donne nella prevenzione e nel superamento dei conflitti, nella riconciliazione e ricostruzione post-conflitto.
In questo ambito abbiamo, per la prima volta, promosso un dibattito del Consiglio di Sicurezza sul nesso WPS e Mediazione nel marzo 2017, e ad ottobre dello stesso anno abbiamo costituito una rete di mediatrici ed esperte in mediazione dell’area mediterranea (Mediterraenan Women Mediators Network, MWMN). Il network si compone di un nucleo iniziale di circa 45 donne provenienti da tutti i paesi mediterranei, che ora stanno lavorando insieme per ampliare il gruppo, per conseguire la formazione necessaria, e per collaborare mutualmente anche con altri network di donne mediatrici esistenti o in via di costituzione.
Il progetto, fortemente voluto dalla Farnesina, ha permesso di conciliare la priorità al tema trasversale Donne Pace e Sicurezza con la priorità geografica del Mediterraneo, che come sappiamo è uno dei fili conduttori principali della politica estera dell’Italia.
Il progetto inoltre costituisce una iniziativa concreta a favore dell’Agenda WPS ed è un contributo mirato al rafforzamento reale, pratico, delle capacità di mediazione al femminile nell’area.
Il progetto MWMN è inserito nel Piano d’Azione Nazionale Donne Pace e Sicurezza dell’Italia, giunto alla terza edizione e che copre il periodo 2016-2018.
Il Piano attualmente in corso ha ottenuto anche un finanziamento pubblico, grazie all’importazione azione di sostegno del Parlamento, cosa che ha consentito all’Italia di entrare nel novero, ancora molto limitato, dei Paesi che assicurano al piano sostegno finanziario pubblico.
Attualmente qual è lo “stato dell’arte” della risoluzione n. 1325 del 2000 su donne, pace e sicurezza e della risoluzione n. 2242 del 2015 che vede l’Italia in prima linea?
La Risoluzione 1325 e tutte le seguenti, l’ultima delle quali è la 2242, che al focus sulla protezione ha aggiunto quello del ruolo attivo della componente femminile nella risoluzione dei conflitti, sono una realtà consolidata ed in continua evoluzione. Dal punto di vista delle politiche nazionali, si tratta di un tema sostenuto da tutta la comunità internazionale; altra situazione, tuttavia, si rileva quanto alla messa in atto pratica delle disposizioni delle risoluzioni. Nella realtà si riscontrano infatti situazioni molto diversificate, ed il rischio di passi indietro è sempre dietro l’angolo. È dunque necessario non abbassare mai la guardia, continuando a dare priorità al tema, e sostenendo le istituzioni internazionali che se ne occupano (ad esempio UNWOMEN, nel contesto ONU) e gli enti della società civile attivi in questo campo.
L’interazione, il sostegno reciproco e lo scambio di esperienze sono azioni molto utili per mantenere alta l’attenzione, fare la necessaria azione di “advocacy”, e dare la necessaria priorità a questo tema. In questa ottica, nel 2016 è stata costituita anche una rete internazionale di Focal Points Nazionali WPS, di cui anche l’Italia fa parte. Questo network si riunisce attualmente due volte l’anno; dallo scorso anno il segretariato è assicurato dalle Nazioni Unite.
Anche all’interno dell’Unione Europea l’agenda Donne Pace e Sicurezza è attivamente promossa, attraverso una strategia (aggiornata regolarmente) che mira a fare di questo tema una componente integrante di tutte le azioni delle Istituzioni Europee.
Oltre al volet internazionale, di competenza del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, esiste un importante lavoro sul piano nazionale che in Italia fa capo al Comitato Interministeriale Diritti Umani (CIDU).
Per sintetizzare in una frase la risposta alla domanda, lo “stato dell’arte” della Risoluzione 1325, a quasi 20 anni dalla sua approvazione, e di quelle che ad essa hanno fatto seguito, è buono, ma con ancora amplissimo margine di miglioramento, quanto a messa in atto concreta e anche quanto a reale cambiamento di mentalità. Per questo, come ho detto, occorre mantenere questo tema molto in alto nella nostra scala di priorità.
Nella recente Giornata mondiale contro la violenza sulle donne è emerso ancora una volta come in alcuni Paesi, teatro di conflitto e crisi umanitarie, la violenza sessuale si trasformi in un vero e proprio strumento di guerra contro la popolazione più vulnerabile, al pari delle armi. Un modo di annientare fisicamente, ma anche psicologicamente il nemico. Qual è la sua opinione in proposito?
Purtroppo, come ho già accennato, si assiste sempre più spesso al fenomeno dell’uso della violenza sessuale, in genere su donne, ragazze e bambine, ma anche su uomini, ragazzi e bambini.
L’utilizzo della violenza sessuale come arma da guerra è purtroppo in crescita, specialmente nei conflitti interni e/o interetnici in cui l’obiettivo è annientare le minoranze, nonché la loro cultura, o la loro religione.
Si tratta ormai di un aberrante quanto deliberato fenomeno teso anche a minare alle fondamenta il processo di pacificazione e riconciliazione post-conflitto.
Contro questi abomini la Comunità Internazionale è mobilitata molto attivamente, e l’Italia fa la sua parte: ho già parlato prima degli sforzi dei caschi blu per assicurare la protezione dei civili e scongiurare la violenza di genere; anche molti programmi di cooperazione allo sviluppo sono pensati anche in chiave di contrasto alla violenza sessuale nei conflitti armati.
Come si traduce l’importanza attribuita alla formazione in questo importante settore?
La formazione su tematiche non strettamente militari dei soldati, uomini e donne, dispiegati nelle operazioni di pace è un elemento chiave per consentire ai caschi blu di mettere in atto in maniera consapevole ed efficace le disposizioni dei mandati a cui sono chiamati ad adempiere. Contrasto alla violenza di genere, protezione dei civili, delle infrastrutture critiche come scuole ed ospedali, protezione dei beni culturali, contrasto al traffico di esseri umani, attenzione per la situazione ambientale in cui le missioni si trovano ad operare (risorse naturali primarie come ad esempio l’acqua già scarse o compromesse) sono tutti temi che ormai formano parte integrante dei doveri delle truppe.
La formazione e l’addestramento necessari sono pertanto molto più articolati, abbracciando, appunto, molti temi non strettamente militari.
L’Italia è molto attiva anche in questo settore: il nostro paese offre varie opportunità di formazione e corsi per i peacekeepers, in prevalenza provenienti da paesi africani.
Cito due esempi salienti, ma non esaustivi:
il centro di eccellenza per le unità di polizia (Center of Excellence for the Standing Police Units, CoESPU), con sede a Vicenza, e l’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario (International Institute of Humanitarian Law, IIHL), con sede a Sanremo, offrono qualificatissimi corsi di formazione per caschi blu in diritto umanitario, lotta alla violenza sessuale nei conflitti, protezione dei civili.
Al CoESPU di Vicenza sono stati recentemente avviati corsi anche in materia di tutela dei beni culturali e dell’ambiente.
Accanto alla tutela dei diritti delle donne pare emergere l’esigenza di attribuire alle donne anche un ruolo attivo all’interno del processo di pacificazione: ci spiega in pratica come si realizza?
Diciamo piuttosto come si dovrebbe realizzare. Il condizionale purtroppo è d’obbligo in questo caso, perché le donne coinvolte nei processi di pace sono ancora troppo poche.
Nella maggior parte dei casi sono assenti, o vengono loro assegnati ruoli marginali.
Di fatto dunque molto spesso i processi di mediazione, riconciliazione e pacificazione avvengono senza contributo né rappresentanza di una larghissima parte della popolazione interessata.
Quello che la comunità internazionale si prefigge, invece, è la partecipazione attiva delle donne alle iniziative di pace sia a livello locale che apicale. In questo senso gli sforzi del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, di nominare più donne in posizioni apicali per iniziative di riconciliazione e pacificazione sono da accogliere con molto favore. Nel quadrante del Mediterraneo penso che anche l’iniziativa del Mediterranean Women Mediators Network possa dare un contributo positivo. Per la verità sta già succedendo: alla Conferenza di Palermo per la Libia, per esempio, le mediatrici libiche del network hanno potuto sostenere la partecipazione attiva delle 4 delegate ufficiali presenti. Questo non è che un esempio, ma rende in modo concreto l’idea alla base del progetto.
Non ci si improvvisa negoziatori e negoziatrici di pace, lo si diventa anche attraverso formazione, empowerment e contatto diretto con le popolazioni coinvolte.
La voce, le istanze e le esigenze specifiche della componente femminile della società non possono non essere prese in conto se si vuol mettere in campo soluzioni di pacificazione sostenibili.
Servono quindi mediatrici ed esperte in mediazione, e, anzi soprattutto, serve di riconoscere, a livello politico e sociale, che le donne non possono essere lasciate ai margini di tali processi, e dunque occorre un impegno più convinto di tutti per un loro coinvolgimento reale e sostanziale, ed irreversibile.
Riguardo la concreta realizzazione del rispetto dei diritti umani (che l’attualità della cronaca internazionale ci mostra ancora assai lontana), come funziona il sistema di monitoraggio e verifica della reale adozione delle raccomandazioni emanate?
Il principale meccanismo di monitoraggio e verifica del rispetto delle Convenzioni sottoscritte e degli impegni presi dai singoli paesi in materia di Diritti Umani è la Revisione Periodica Universale (Universal Periodic Review, UPR). Si tratta di un esame (che avviene in Consiglio Diritti Umani, CDU, che ha sede a Ginevra) a cui tutti i paesi si sottopongono volontariamente ogni 4 anni, in cui viene esaminata la situazione dei diritti umani sul piano nazionale e vengono formulate raccomandazioni.
Sempre all’interno del sistema ONU, esistono inoltre le cosiddette procedure speciali, con focus su alcuni aspetti specifici dei diritti umani, gestite in genere da un/una rappresentante speciale del Segretario Generale.
L’Italia ha dal 2003 dichiarato in anticipo la disponibilità a ricevere le visite dei rappresentanti speciali ogni qualvolta sia da essi richiesto (cd “standing invitation”). Ad esempio di recente si è avuta la visita della Rappresentante Speciale sulle forme contemporanee di schiavitù, Urmila Bhoola. Oltre che il Consiglio Diritti Umani, si occupa di diritti umani anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e, nei casi di crisi e di minaccia alla pace, anche il Consiglio di Sicurezza.
Sulla sua agenda qual è il prossimo, più rilevante appuntamento come rappresentante DGAP del MAECI?
Sono appena rientrata da due viaggi di lavoro rispettivamente a l’Aja e Madrid. A l’Aja ho partecipato all’incontro semestrale direttori/direttrici Nazioni Unite dei paesi europei che siedono in CdS. Anche se l’Italia è uscita dal CdS a fine 2017 per lasciare il seggio all’Olanda (come stabilito dall’intesa sulla suddivisione del seggio a seguito delle elezioni del 2016, in cui ci i due paesi di sono ritrovati alla pari nelle votazioni in Assemblea Generale), la collaborazione è infatti andata avanti per tutto il 2018.
A Madrid ho partecipato ad una iniziativa sulla riforma del Consiglio di Sicurezza. L’Italia, infatti, è capofila del Groppo “Uniting for Consensus”, che promuove una visione di riforma del CdS in senso più rappresentativo, trasparente ed inclusivo. In particolare favoriamo un ampliamento dei seggi per membri non permanenti, mentre ci opponiamo a nuovi membri permanenti. Vogliamo una CdS che guardi al futuro, sostenibile e capace di affrontare le sfide del XXI secolo, e non un CdS che riproponga, ampliate, prerogative che favorirebbero solo un piccolo gruppo di paesi.
Il prossimo rilevante appuntamento sarà a metà gennaio 2019, a Ginevra, al Consiglio Diritti Umani, dove parteciperò ad un incontro dei 28 Stati UE con la nuova Alta Commissaria per i Diritti Umani, Michelle Bachelet.
Colgo l’occasione per ricordare, con soddisfazione, che l’Italia inizierà proprio a gennaio 2019 il suo terzo mandato in Consiglio Diritti Umani, l’organo delle Nazioni Unite più importante dopo il CdS.
A novembre il nostro paese è stato infatti eletto in CDU per il triennio 2019-2021 con il numero più alto di voti tra i Paesi del cd “gruppo occidentale” (WEOG). Le priorità del nostro mandato in CDU confermano che il nostro impegno in materia di diritti umani e libertà fondamentali è trasversale e onnicomprensivo e si muove su numerosi piani tematici. Tra le nostre priorità figurano infatti: la lotta contro ogni forma di discriminazione, la campagna per una moratoria universale della pena di morte, la promozione dei diritti delle donne e delle bambine, ed in particolare le campagne contro le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci e forzati, la tutela e la promozione dei diritti dei bambini, la tutela e la promozione della libertà di religione o credo e la protezione delle minoranze religiose e ancora: la lotta al traffico di esseri umani, la tutela e la promozione dei diritti delle persone con disabilità, la protezione del patrimonio culturale e religioso e la protezione dei Difensori dei Diritti Umani.